Appropriarsi di file e informazioni contenente dati riservati sulla clientela di una azienda non costituisce formalmente un “furto” e, nel caso chi commetta l’infrazione sia un dipendente della società, tuttalpiù si può parlare di rivelazione del segreto professionale. Lo ha stabilito la Quarta Sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza 44840/2010.
Il caso analizzato dai giudici vede come soggetto un impiegato che, poco prima di dare le dimissioni, era riuscito a procurarsi copia di file aziendali contenenti dati e offerte commerciali. In un secondo momento, l’uomo aveva spostato i dati riservati sul proprio indirizzo privato, prelevandoli dal server centrale dell’azienda, e li aveva utilizzati a vantaggio di una azienda concorrente della quale nel frattempo era diventato co-amministratore.
Secondo i giudici, la riproduzione non autorizzata del materiale non può essere considerata come furto, poiché non si verifica la perdita del possesso del bene da parte del legittimo proprietario; i dati e le informazioni presenti nei file non possono infatti, secondo la corte, rientrare nel concetto di “cosa mobile”.
Esclusa la possibilità di incasellare il reato come accesso abusivo a un sistema informatico per finalità estranee alle ragioni istituzionali, la corte ha definito l’illecito come rivelazione di segreto professionale o di segreto industriale – che prevede un anno di reclusione e una multa da 30 a 516 euro – visto l’utilizzo dei dati riservati a vantaggio di una società concorrente.
La vicenda e la sentenza della corte ribadiscono l’importanza per le aziende di proteggersi non solamente dalle minacce esterne ma anche da quelle interne, troppo spesso sottovalutate, definendo adeguate policy per l’accesso ai dati aziendali.