Si chiama «autonomic computing» ed è il termine introdotto nel 2001 da IBM per indicare un particolare sistema informatico: si tratta di una rete di calcolatori che si regolano in un modo molto simile a quello con cui il sistema nervoso gestisce e protegge autonomamente il corpo umano.
IBM è stata fra le prime società di informatica a mettere a frutto il concetto di utility computing, ossia la possibilità di utilizzare le risorse di calcolo di server e mainframe in modo simile a come si utilizza l’acqua, l’elettricità o Internet. Un concetto che ora intende evolvere nel cloud computing, che fornisce la possibilità di eseguire attività di calcolo attraverso una rete di risorse distribuite, accessibili a livello globale e gestibili in modo centralizzato.
A collaborare nel progetto saranno due istituzioni accademiche leader in America, il Georgia Institute of Technology e l’Ohio State University. La collaborazione prevede la creazione di un particolare prototipo di cloud computing che collega i centri dati delle due istituzioni definito Critical Enterprise Cloud Computing Services (CECCS).
L’aggettivo «autonomic» sta a rappresentare una situazione per cui le risorse non solo sono condivise e decentralizzate, ma sono anche in grado di autogestirsi.
Il progetto si concentra sui servizi relativi al software applicativo che sono critici per la capacità di funzionamento di un’azienda, come ad esempio nel caso dei sistemi operativi informatici di grandi linee aeree.
Questa iniziativa favorirà l?interazione e lo scambio di idee tra i professori presso il Georgia Tech e l’Ohio State e IBM Watson e Austin Research Labs e i gruppi di sviluppo di Raleigh.
L’Autonomic Computing è stato ideato come soluzione per combattere la complessità sempre crescente della gestione dei sistemi informatici avanzati. IBM ha integrato le capacità autonomiche nelle funzioni di più di 100 prodotti e servizi diversi.