L’idea era davvero interessante: un passaporto con microchip RFID incorporato per facilitare la vita ai cittadini statunitensi che viaggiano spesso. L’idea però sembra destinata a restare tale per problemi legati alla privacy.
Lo stop è arrivato dal Centro per la Democrazia e la Tecnologia, istituto di ricerca del Governo USA, che mette così in forse un progetto al quale gli Stati Uniti stavano lavorando dall’Ottobre del 2006. Lo scopo è quello di utilizzare l’identificazione a radiofrequenza (RFID) per velocizzare tutte le operazioni dei viaggiatori.
I “frequent traveller” diretti in Canada, Messico e Caraibi non avrebbero più avuto bisogno di mostrare ogni volta il proprio passaporto agli addetti. Grazie alla tessera RFID, grande quanto una carta di identità, l’identificazione sarebbe avvenuta automaticamente a una distanza di 6-9 metri, con conseguente abbattimento dei tempi d’attesa.
Un approccio simile è già stato adottato per i passaporti elettronici basati sulla tecnologia della lettura di prossimità, che contengono tutti i dati comunemente presenti sul passaporto (inclusa una fotografia e una firma digitale): tutte informazioni messe al sicuro da un sistema di criptaggio.
Una protezione che verrebbe a mancare, secondo il Centro per la Democrazia e la Tecnologia, con i passaporti RFID. Nel primo caso i dati contenuti nel chip potrebbero essere manomessi soltanto rubando fisicamente il supporto, mentre nel caso dell’RFID l’intrusione potrebbe avvenire “a distanza”, senza che la vittima se ne renda conto.
Il risultato? Dati personali esposti allo sguardo di occhi indiscreti e rischi che vanno dalla violazione della privacy al più dannoso furto d’identità.