Precari e pubblico impiego: nella PA sono 119 mila

di Teresa Barone

9 Febbraio 2012 12:00

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Da un?indagine della Cgia di Mestre emerge il ritratto del precario italiano: lavora nella PA, non è laureato e guadagna in media 836 euro al mese.

Scuola, Sanità, amministrazioni regionali, enti locali e statali: ecco i settori caratterizzati da una più elevata concentrazione di precariato. Sono circa il 34 per cento del totale dei lavoratori precari in Italia, che non solo popolano anche la Pubblica Amministrazione ma, stando ai dati reso noti dalla Cgia di Mestre, rappresentano una fetta importante del pubblico impiego.

Solo nella Pubblica Amministrazione, inoltre, i lavoratori precari sono circa 119 mila, ai quali si aggiungono gli oltre 514 mila impiegati nella scuola e nella Sanità. Dal resoconto della Cgia di Mestre emerge un ritratto dettagliato del precario medio: la retribuzione netta media e mensile per un giovane lavoratore di età inferiore ai 34 anni è pari a 836 euro. Si sale fino a 927 euro in caso di lavoratori maschi, e si scende fino a 750 euro per le donne, e in ogni caso si tratta di importi che non tengono conto di tredicesima o altri introiti aggiuntivi, come premi o indennità saltuarie.

La maggior parte dei precari vive e lavora al Sud, ha un diploma di scuola media superiore (46% del totale), mentre il 39% ha la licenza media e solo il 15% ha conseguito la laurea. Questi dati sono stati commentati dal segretario della CGIA di Mestre Giuseppe Bortolussi, il quale ha messo in evidenza come siano i lavoratori che hanno terminato solo le scuole dell?obbligo a essere in una situazione più delicata.

«Su un totale di oltre 3.315.000 lavoratori senza un contratto di lavoro stabile quasi 1.289.000, pari al 38,9% del totale, non ha proseguito gli studi dopo aver terminato la scuola dell’obbligo. Questi precari con basso titolo di studio sono in questa fase di crisi economica quelli più a rischio. Nella stragrande maggioranza dei casi svolgono mansioni molto pesanti da un punto di vista fisico e sono occupati soprattutto nel settore alberghiero, in quello della ristorazione e nell’agricoltura. Per questo ritengo che i percorsi formativi debbano essere posti al centro di un seria riflessione tra i politici e gli addetti ai lavori, affinché vengano si individuino delle risposte in grado di avvicinare in maniera più costruttiva l’attività’ formativa e il mondo delle imprese.»