Intendo considerare questi aspetti al fine di operare alcuni approfondimenti per meglio comprendere l’operazione in atto. McNabb, in “Public Utilities. Management Challenges for the 21st Century” del 2005, definisce il management come «un set di attività poste in essere da determinati attori per guidare altri soggetti a realizzare i vari obiettivi di un’organizzazione». Ne deriva implicitamente che occorre porre l’accento sulle “performance” e sulla responsabilità o “accountability” per verificare sul campo le attività realizzate.
Se vogliamo pertanto definire il profilo del new public manager occorre una ristrutturazione della PA che combatta contro ogni forma di tecnocrazia, tipica di un’organizzazione gerarchico-piramidale, e sostenga la cultura del risultato. Il Ministro, con la pubblicazione online degli incarichi di consulenza, ha messo in luce come all’interno del settore pubblico ci siano incarichi affidati a persone già retribuite dallo Stato, con una evidente sovrapposizione di interessi quando questi incarichi coinvolgono i compiti di vigilanza dell’ente di appartenenza. A parte la situazione “patologica” suindicata, resta la necessità di quantificare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti per rendere “trasparente” l’azione pubblica.
Il primo punto fermo è quindi dato dal fatto che la managerialità non si pone in contrasto con la trasparenza e la democrazia. La L.94/1997 ha introdotto nel nostro ordinamento il bilancio per obiettivi e con il d.lgs. 286/1999 sono stati fissati anche per gli enti locali i criteri del controllo strategico, del controllo di gestione e della valutazione dei dirigenti. Il Testo Unico degli Enti locali (d.lgs. 267/2000) ha rappresentato un autentico punto di svolta fissando la seperazione dei compiti di gestione dai poteri di indirizzo politico (art.107-111), affidando ai dirigenti l’attribuzione della responsabilità “dei risultati della gestione”. La successiva L.328/2000 affida ai comuni l’adozione di strumenti «per il controllo di gestione atti a valutare l’efficienza, l’efficacia e i risultati delle prestazioni», mentre alle Regioni resta il compito di «promuovere metodi e strumenti di controllo di gestione atti a valutare l’efficacia e l’efficienza dei servizi ed i risultati».
Per il Manager pubblico dovrebbero valere dei vincoli stabiliti in sede di indirizzo politico come obiettivi. Non può certamente essere considerato in questo senso il privatistico “profitto”, ma bensì occorre pensare alle finalità di una politica a cui si aggiungono i vincoli della normativa, della sostenibilità ambientale e sociale. È dopo aver determinato gli obiettivi che si possono esplicitare le funzioni manageriali nelle loro fasi di analisi, pianficazione, organizzazione, direzione e valutazione.
Durante il decennio degli anni ’80 è partita dalla Nuova Zelanda, per poi espandersi negli altri paesi anglosassoni (Australia, Gran Bretagna, Stati Uniti) la teoria del NEW PUBLIC MANAGEMENT (NPM). Questa teoria prende le mosse da una critica impietosa verso le politiche interventiste e mira a limitare i confini del settore pubblico, cercando una maggiore efficienza in uno Stato minimalista. Da una parte si afferma che la cosa pubblica deve essere gestita in modo da privilegiare l’innovazione e l’iniziativa, dall’altra si sostiene una “maketization” dei servizi pubblici. In questa logica l’utente deve essere considerato come un cliente e viene promosso l’outsourcing, ossia la produzione di servizi pubblici per via contrattuale.