Ogni azienda è un sistema, parafrasando Gareth Morgan e le sue metafore organizzative. Non una macchina in cui ogni pezzo è fungibile, non una piramide in cui un elemento è più importante dell’altro, ma è un organismo – l’azienda – in cui ogni organo ha senso solo in relazione agli altri e all’ambiente esterno. Esistono dei cespiti che non compaiono in bilancio e che tuttavia costituiscono il fondamento del valore competitivo, quali per esempio il sapere tecnologico, la brand image e – trasversale a tutto – le risorse umane. Sono gli invisible assets, difficilmente quantificabili in termini monetari dall’azienda stessa, ma altrettanto difficilmente imitabili dalle aziende concorrenti. È questo il vero punto di forza a prova di chinese economy!
La rivoluzione copernicana dei nostri anni è passare da una concezione della risorsa umana come fattore di produzione e, quindi, come costo da ottimizzare, a una concezione – per l’appunto – di risorsa, portatrice di professionalità e personalità. Come si può, allora, investire sul capitale umano? Gli strumenti a disposizione della Direzione Risorse Umane sono quelli di stampo comunicazionale e formativo. Gli uni non escludono gli altri, costituiscono – piuttosto – un sistema integrato di intervento, in cui le aspettative di crescita individuali e organizzative si fondono in una comune prospettiva di sviluppo. Fundamentum divisionis di strumenti e approcci così apparentemente dissimili è la coerenza. Coerenza con l’obiettivo, il destinatario, il contesto di riferimento e il messaggio.
I due filoni dell’apprendimento che hanno profondamente condizionato la formazione delle risorse umane sono: le teorie del comportamento organizzativo (tipiche della prima fase d’affiancamento ad un responsabile, come il coaching o il mentoring) e le teorie dell’appropriazione. In questo secondo caso la formazione è Cambiamento, delle mappe mentali e della struttura personale. Cambiamento per Appropriazione, più che per imitazione. I contesti didattici più tipici sono di natura esperienziale: role-playing, simulazioni, etc. Ed è in questa stessa corrente che s’inserisce il Socioplay, nuovo strumento formativo di impianto psicologico importato in aziende come Ferrari, Unilever, Barilla. Il socioplay, nella sua natura più generale, è un lavoro centrato su un gruppo di partecipanti che rielabora i conflitti e le dinamiche attraverso la loro messa in scena.
Nella sua declinazione aziendale, il socioplay si muove su un piano sistemico-relazionale. I gruppi, a seconda degli obiettivi, possono essere formati da dipendenti con funzioni aziendali analoghe o eterogenee. Il lavoro, condotto da uno psicologo, prevede l’inversione dei ruoli nelle scene dedicate ai conflitti o alle reticenze culturali, per i quali si creano orizzonti più funzionali. «I giochi di ruolo – dichiara Enrico David Santori, psicodrammatista Gruppo Plays – tendono allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e della spontaneità creatrice, al di là degli status precostituiti. Gli obiettivi del socioplay sono il miglioramento del clima interno all’azienda, della comunicazione non verticalizzata, del senso d’appartenenza, ma anche l’assimilazione di un cambiamento culturale, organizzativo o tecnologico. Lo scambio, la relazione e un’attenta analisi dell’esperienza sono le metodologie attraverso le quali questi obiettivi si rendono più efficacemente realizzabili».
L’attuale scenario socio-economico ha portato i brand ad inventarsi nuovi approcci con il cliente: marketing relazionale et tribale et esperienziale et chi più ne ha più ne metta. Eppure si fa fatica a concepire una medesima esigenza di cambiamento relazionale nei confronti del cliente interno: il dipendente dell’azienda. Ma se è vero il postulato della Comunicazione secondo cui l’azienda comunica innanzitutto quello che è, cos’è un’azienda non integrata al suo interno? Un corpo in cui ogni cellula, ogni tessuto, ogni organo, non si sente parte di un Tutto. Il Tutto è la mission, la Persona fa la mission.