L’impatto e gli effetti della rivoluzione tecnologica digitale, uno dei principali fattori di trasformazione dell’economia contemporanea, sul mondo del lavoro non sono ancora compresi a fondo. I vantaggi sono molti ma la velocità del processo di cambiamento indotto comporta dei rischi sull’occupazione da considerare con attenzione.
E’ il tema affrontato da un articolo scritto da Leslie Brokaw comparso sul sito di MIT (Massachusetts Institute of Technology) Sloan Management Review che recensisce “Race against the Machine“, un e-book di Erik Brynjolfsson, economista e direttore del MIT Center for Digital Business, e Andrew McAfee, direttore associato e ricercatore scientifico nello stesso centro, appena uscito, dedicato al problema della portata sociale ed economica dei cambiamenti ingenerati negli Stati Uniti dalla tecnologia digitale.
Gli autori del libro in questione, i quali hanno ricevuto per il loro lavoro il plauso di Tim O’Reilly, Gary Hamel e Nicholas Negroponte, non hanno una posizione ostile ai mutamenti della tecnica intervenuti. Anzi, nel capitolo finale del libro “The Digital Frontier” fanno sfoggio di ottimismo per il futuro considerando i miglioramenti che strumenti come computer e reti hanno apportato al vivere sociale.
Tuttavia, la loro analisi cerca di mantenersi obiettiva descrivendo il processo in corso anche nei suoi aspetti più contraddittori e controversi. Nel fare questo sottolineano l’atteggiamento assunto da molti osservatori che non riescono a capire l’incidenza specifica dell’elemento tecnologico sulla disoccupazione. Si parla spesso, dicono, di outsourcing, tasse, crisi cicliche e delocalizzazione ma la carenza di lavoro o la ripresa jobless è imputabile anche ai rapidi progressi della ristrutturazione digitale del sistema produttivo.
Man mano, la tecnica tende ad affermarsi in campi prima riservati alla sola competenza umana, fatto che ha profonde implicazioni economiche. Produzione e produttività possono crescere aumentando nel complesso i benefici per la società ma ciò non significa che tutti ne traggono vantaggio. Già qualche tempo fa Jeremy Rifkin in un testo troppo presto dimenticato “La fine del lavoro” (1995) notava che “l’introduzione di tecnologie laborsaving (con utilizzo di minor lavoro, ndr) causano più che altrove incrementi nella produttività, aumenti di profitti e minori opportunità di occupazione”.
Computer e software sempre più veloci e intelligenti, mostrano da parte loro Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, stanno fornendo alle macchine capacità inedite, come comprensione e traduzione del linguaggio, insidiando la funzione umana. L’automazione sta uscendo in fretta fuori dalle fabbriche giungendo in altre aree, marketing, call center e servizi in genere, che finora garantivano lo sviluppo di una notevole quantità di posti di lavoro. Durante l’ultimo periodo recessivo negli Stati Uniti una persona su dodici nel settore vendite ha perso il lavoro. Dal giugno 2009 la spesa aziendale in software e altra dotazione tecnologica è cresciuta del 26% a fronte di un ristagno della forza lavoro impiegata.
Da dieci anni a questa parte l’incremento della produttività è superiore ai livelli raggiunti nel 1970 e nel 1980, rimanendo alta anche in rapporto ai dati del 1990.
Le ricadute sul piano lavorativo comportano un divario crescente tra manodopera più e meno qualificata. Mentre il capitale si riorganizza acquisendo una fetta considerevole dei guadagni una parte del lavoro resta indietro arrancando. “Molti lavoratori, in breve, stanno perdendo la gara con le macchine“. Allora, che fare?
La chiave per vincere l’impegnativa sfida è sintetizzata dagli autori nella formula “competere con le macchine non contro le macchine”. Nei compiti di tipo esecutivo, sostengono i due scrittori, non c’è partita ma i computer non possiedono qualità umane fondamentali come intuito e creatività che aprono spazi importanti nei campi della medicina, del diritto, della produzione manifatturiera e della scoperta scientifica.