L’Italia non ha ancora recuperato i livelli retributivi pre-Covid, una situazione condivisa con la Spagna ma non con altre nazioni della UE come Germania e Francia. Secondo un recente studio redatto dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, in relazione al salario medio emerge un incremento del gap con i valori dell’Unione Europea.
Ad incidere è l’aumento del lavoro precario e delle basse qualifiche, tratti distintivi di un mercato del lavoro e di un sistema produttivo con bassa propensione all’innovazione e orientato alla riduzione dei costi di produzione tramite compressione salariale, in particolare nelle micro e piccole imprese in settori a basso valore aggiunto.
Italia e UE: salari a confronto
Lo studio si basa sulle più recenti statistiche EUROSTAT relative alla massa salariale e agli occupati pubblicate, associate ai dati fiscali pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
La differenza del salario in Italia con quello francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila, mentre con la retribuzione media tedesca il gap è cresciuto da – 13,9 mila a -15,0 mila euro.
Confrontando il 2021 con il 2019, si osserva come Spagna e Italia non abbiano ancora recuperato il livello salariale medio precedente l’emergenza Covid, mentre in Francia e Germania, così come nella media dell’Eurozona, l’aumento è stato invece superiore a 2%.
A incidere sul valore del salario medio italiano è sia la forte discontinuità lavorativa sia la maggiore presenza delle qualifiche più basse. Nel 2021, ad esempio, l’Italia ha la quota di dirigenti (1,4%) e di professioni intellettuali e scientifiche (13,6%) più bassa.
Precarietà in aumento
Dall’analisi delle statistiche relative alle ultime due dichiarazioni dei redditi pubblicate dal MEF, inoltre, si evince un calo rispetto al 2020 dei lavoratori che hanno dichiarato soltanto redditi da lavoro dipendente o soltanto reddito da lavoro dipendente associato a reddito da fabbricati/terreni.
Nel 2021, più di un dipendente su quattro (26,7%) ha dichiarato meno di 10mila euro, mentre quasi tre su quattro (73,2%) hanno dichiarato fino a 26 mila euro, quindi meno del salario lordo annuale medio del 2020.
Per ridurre la diffusa e crescente precarietà – che ad aprile del 2022 ha toccato la drammatica quota di quasi 3,2 milioni di occupati a termine, la più alta mai registrata dal 1977 (ISTAT, 2022) – è fondamentale un intervento che diminuisca il numero di contratti non standard e ne limiti l’utilizzo, ridando centralità al contratto a tempo indeterminato e all’occupazione stabile.