Il reddito prodotto da un italiano residente all’estero che svolge attività lavorativa in Italia in smart working, per un periodo prolungato rischia di essere tassato in entrambi gli Stati, con la possibilità di evitare la reale doppia imposizione con il riconoscimento di un eventuale credito d’imposta riconosciuto dal Paese estero, purché sia stata siglata apposita convenzione: è quanto chiarisce l’Agenzia delle Entrate con la risposta n. 626 del 27 settembre 2021 fornita a specifico interpello (trattamento fiscale del reddito di lavoro dipendente percepito da un soggetto non residente che, a causa dell’emergenza epidemiologica, svolge l’attività lavorativa in Italia, in smart working, invece che nel Paese estero – Articoli 49 e 51 del TUIR).
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In linea generale, per i non residenti in Italia, l’imposta si applica sui redditi prodotti nel territorio dello Stato (articolo 3, comma 1, del Tuir), e nel caso di lavoro dipendente sono sempre considerati tali a meno che non sia stata stipulata apposita convenzione contro le doppie imposizioni. Nel caso in esame, ci si può riferire alla convenzione siglata con il Lussemburgo.
Nel modello Ocse di convenzione contro le doppie imposizioni, il luogo di prestazione è quello dove il lavoratore è fisicamente presente quando svolge l’attività lavorativa. Tuttavia, poiché il reddito percepito dall’istante – in questo caso un cittadino italiano residente in Lussemburgo che ha svolto attività lavorativa in smart working in Italia per un lungo periodo (il limite massimo previsto nella convenzione tra i due paesi è di 183 giorni) – rileva fiscalmente anche nel nostro Paese, tale reddito va tassato in entrambi gli Stati.
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La conseguente doppia imposizione può risolta con il riconoscimento di un credito d’imposta riconosciuto da parte del Lussemburgo, che è lo Stato di residenza del dipendente. In assenza di un’apposita convenzione, il rischio è invece quello di subire la doppia tassazione.