Starbucks, il buono e il cattivo del caffè

di Barbara Weisz

26 Agosto 2009 08:00

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Un libro del giornalista Taylor Clark, che attraverso la storia di un'impresa simbolo dell'America degli ultimi 20 anni, raccoglie testimonianze, racconta aneddoti divertenti, presenta dati sulla storia e sull'economia mondiale del caffè

Diciamocelo: un italiano difficilmente rimane estasiato da un caffè di Starbucks. E probabilmente alla multinazionale americana lo sanno, visto che sono presenti in 43 paesi del mondo ma non hanno negozi nella Penisola. L’azienda di Seattle nel giro di vent’anni è diventata uno dei simboli del capitalismo americano grazie alla visione dell’ad, Howard Schulz, protagonista di un’avventura imprenditoriale raccontata dal giornalista Taylor Clark in “Starbucks, il buono e il cattivo del caffè” (Egea, 2009).

Nel 1983 Schulz, allora direttore marketing dell’azienda, viene mandato a Milano per seguire una fiera di casalinghi. Una mattina, camminando dall’albergo alla Fiera, entra in un bar. Racconta che ebbe un’illuminazione. Starbucks, allora, era una torrefazione con diversi punti vendita.

«Se fossimo riusciti a ricreare in America l’autenticità del bar da caffè italiano, essa avrebbe potuto colpire altri americani come aveva colpito me». Provò per due anni a convincere i suoi capi a trasformare l’azienda in una catena di caffetterie. Non ci riuscì, allora ne fondò una propria, e in pochi anni si comprò Starbucks. Risultato: nel 1989 negli Stati Uniti c’erano 585 caffetterie, oggi sono 24.000. Da quando la catena ha raggiunto la Gran Bretagna, gli inglesi spendono più in caffè che in tè. Prima un caffè costava agli americani tra i 25 centesimi e il dollaro, oggi il cliente medio spende in caffè 4,05 dollari, rispetto ai 4,34 per un pasto in un fast food.

Anche Clark rimane affascinato dalla cultura di un italiano, Ernesto Illy. Lo incontra circa un anno prima della sua morte (è scomparso nel 2008, a 82 anni), fa insieme a lui il giro dell’azienda, lo intervista. «Quando Illy inizia a parlare dei rudimenti scientifici del caffè – spiega – è meglio tenersi forte alla sedia» o comunque »tentare di resistere il più a lungo possibile a una scarica di grafici e termini tecnici». Qualche esempio? «La coffee arabica ha 44 cromosomi – racconta l’imprenditore – e noi umani? 46!». Tutti gli altri caffè, invece, ne hanno la metà, ovvero 22. O ancora: «fra la pianta del caffè e la tazzina ci sono 114 passaggi in cui può andare storto qualcosa». E, ai fini della qualità, «ogni errore è una catastrofe».

Clark critica diversi aspetti del business di Starbucks che, oggi, vende come caffè bevande a base di latte dai sapori più disparati (il caffè pesa solo per il 5% sul prezzo del prodotto, il latte il 10%, il lavoro e i costi fissi il 71%, mentre l’11% costituisce il profitto dell’impresa e il resto se ne va in spese varie). Ma difende l’azienda da alcuni attacchi ricorrenti, come le accuse di rovinare le piccole caffetterie a gestione familiare e quella di sfruttare gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo. Conclude con una critica: «Starbucks – scrive – diminuisce la diversità del mondo ogni volta che costruisce» un punto vendita. Però, ammette lui stesso, se uno è alla stazione e ha voglia di bersi un caffè…