Marchionne e l’utilità dell’Italia

di Barbara Weisz

25 Ottobre 2010 13:10

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Il Ceo Fiat: sul risultato Fiat, neanche un euro dall'Italia. Reazioni da sindacati e politica, perlopiù critiche. Appoggio da Confindustria

Il giorno dopo, come prevedibile, è un coro di commenti, critiche, prese di posizione. L’intervista rilasciata dall’ad Fiat, Sergio Marchionne, a Fabio Fazio nel corso del programma “che tempo che fa” andato in onda ieri sera fa discutere, parecchio.

«La Fiat ha fatto due miliardi di utile nei primi nove mesi del 2010 e nemmeno un euro viene dall’Italia», ha dichiarato l’ad. Aggiungendo: «se l’Italia la potessimo tagliare, faremmo di più». «Marchionne parla come se volesse andare via dall’Italia», risponde il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, secondo cui l’ad Fiat «scarica le colpe sugli operai».

«Arriviamo al pieno utilizzo degli impianti» è la sfida lanciata dal leader della Cisl Raffaele Bonanni, in cambio di «salario di produttività», «ripartizione degli utili» e partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali. «Il nostro Paese per la Fiat rimane uno dei migliori mercati europei», aggiunge il segretario Uil, Luigi Angeletti. E anche il mondo della politica, dal governo alle opposizioni, analizza criticamente le affermazioni del Ceo del Lingotto.

L’argomentazione numero uno di Marchionne riguarda la scarsa competitività italiana. «Siamo al 118esimo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48esimo posto per la competitività del sistema industriale». Fazio gli ricorda i molteplici interventi dello stato italiano a favore dell’azienda. Vero, risponde il manager, ma «fra il 2008 e il 2009 la Fiat è stata l’unica azienda che non ha bussato alle casse dello Stato». E gli incentivi alla rottamazione? «Sono soldi che vanno ai consumatori: aiutano parzialmente anche me, ma in Italia sette macchine comprate su dieci sono straniere».

È lo stesso Marchionne ad ammettere che la perdita di competitività del sistema «non è colpa dei lavoratori», e ad aggiungere che l’azienda ha l’obiettivo di «portare il salario dei dipendenti al livello dei paesi vicini». Ma qui si inserisce un punto delicato, quello dei rapporti con i sindacati. «Non è possibile avere tre persone che bloccano un intero stabilimento», questo è «un esempio di anarchia, non di democrazia», e soprattutto «con questo sistema non si possono gestire aziende così grandi».

C’è anche un attacco diretto alla Fiom-Cgil, il sindacato che non ha firmato gli accordi di Pomigliano, a cui secondo l’ad è iscritto solo il 12% dei dipendenti della società torinese.

La replica di Epifani non si fa attendere: «Come si può pensare che dagli stabilimenti italiani provengano anche gli utili quando sono praticamente fermi?», si chiede il segretario Cgil, che critica anche le strategie aziendali: «sulle fasce medio alte, quelle che fanno guadagnare, la Fiat è praticamente assente, e su quelle medio piccole la concorrenza è agguerritissima». In sintesi, «non ci sono modelli» e «non c’è un progetto industriale per l’Italia».

Il segretario della Cgil, Raffaele Bonanni, lancia «la seguente sfida all’amministratore delegato del Lingotto: arriviamo al pieno utilizzo degli impianti in cambio non solo del salario di prduttività, ma anche della ripartizione degli utili e, questione che reputo molto importante, si arrivi a un livello alto di partecipazione delle decisioni aziendali». Il leader Uil, Angeletti, che dopo aver sottolineato come il mercato italiano resti fondamentale per la Fiat, aggiunge: «non vedo dove la Fiat possa costruire le auto da vendere in Europa». E continua: «che in Italia ci sia un problema di competitività non lo scopre certo Marchionne. Rispetto agli altri Paesi abbiamo bassi salari e bassa produttività». Dunque, l’importante è che «Marchionne sia disposto ad accogliere le sfide, non solo a parlarne». 

Quanto alle reazioni politiche, il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ricorda «che l’Italia è il Paese di storico insediamento del gruppo automobilistico ove ha depositato impianti e soprattutto un grande patrimonio di esperienze e professionalità». Per il titolare della Semplificazione, Roberto Calderoli, «Marchionne ha la memoria corta sugli aiuti di stato». Interviene anche il presidente della Camera Gianfranco Fini: «se la Fiat è un grande colosso lo deve al fatto che è stato per grandissimo tempo il contribuente italiano, lo Stato» a impedirle di affondare.

Per le opposizioni, Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro del Pd, ritiene che nella sua analisi Marchionne ometta «un dato di fondo: le carenze della Fiat nelle politiche per gli investimenti, nella progettazione e produzione di modelli, nell’organizzazione produttiva» mentre il capogruppo in commissione Lavoro del Pd, Cesare Damiano, definisce le parole di Marchionne «ingenerose nei confronti dell’Italia e dei lavoratori che hanno contribuito a fare grande la Fiat».
Unica, o quasi, voce fuori dal coro, quella di Confindustria, il cui vicepresidente Alberto Bombassei ritiene le cose dette dal Ceo Fiat «del tutto condivisibili», anzi «avrebbe potuto dirne molte di più».