Rapporto Einaudi: l’Italia e il mondo dopo la crisi

di Barbara Weisz

19 Novembre 2010 16:00

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L'Italia sarà fra gli ultimi al mondo a tornare al pil pre-crisi. L'ascesa della classe media nel Sud Est asiatico. Lo studio curato da Mario Deaglio

Gli Stati Uniti vedranno la crescita tornare ai livelli pre-crisi alla fine del prossimo anno. Fra il 2012 e il 2015 recupererà i livelli dell’inizio del 2008 anche il pil di tutti gli altri paesi del mondo, tranne tre: l’Italia è fra questi, accompagnata da Spagna e Giappone.

È la fotografia scattata dal “XV rapporto sull’economia globale e l’Italia”, promosso dal centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi e da Ubi Banca, curato da Mario Deaglio, che quest’anno è intitolato: “La ripresa, il coraggio e la paura”.

L’Italia sconta, come lo stato nipponico, «la quasi-stagnazione che aveva preceduto la crisi e la velocità molto bassa della ripresa», e il pil tornerà ai livelli precedenti non «prima della prima metà del 2015». Il paese, spiega Deaglio, è in balia di un circolo poco virtuoso che affianca un debito molto alto a una bassa produttività.

Per pagare gli interessi sul debito si mangia risorse che potrebbero servire a investire nella crescita. Per spezzare questo meccanismo, l’Italia dovrebbe marciare a un ritmo del 3% annuo. Un obiettivo che al momento si potrebbe aggiungere, è decisamente lontano, visto che il pil viaggia intorno all’1% (e il 3% non si vede dalla fine degli anni ’70-inizio anni ’80).

L’analisi è abbastanza impietosa anche in relazione al passato: la crisi, nella Penisola, non è iniziata negli ultimi due anni, ma intorno alla metà degli anni ’90. E questo non perché sia diminuita la domanda interna (i consumi pubblici e privati sono cresciuti e la propensione all’investimento presenta una dinamica positiva), il problema è nell’offerta, «ossia nell’esito deludente degli investimenti realizzati»: i punti critici evidenziati sono la produttività del lavoro, che ha cessato di crescere dal 1995, e quella media del capitale netto, che è addirittura in calo.

E ancora: ci sono settori, come l’auto o il tessile, in cui la crisi è iniziata nel 1990. In definitiva, quella italiana è una crisi che viene da lontano, dovuta a una struttura economica «poco efficiente, mal specializzata, che si è andata allontanando dalla frontiera dell’innovazione».

Per dirla in termini tecnici, «è una crisi della produttività dei fattori». Passando alla situazione internazionale, l’analisi propone tre modi per analizzare ciò che è avvenuto negli ultimi due-tre anni: il fallimento del sistema di regolazione, la redistribuzione globale del reddito, e il ridisegno strategico dell’economia mondiale.

Su questi ultimi due temi, ci sono spunti interessanti. Il pil dei paesi ricchi, oggi intorno al 57%, fra 15 anni sarà sotto il 50%, oscillando a seconda degli scenari (Deaglio propone tre diverse ipotesi) fra il 44,5 e il 48,3%. I paesi emergenti, che oggi producono il 22,3% della ricchezza mondiale, saliranno intorno al 40% (38,9%, 40,1% e 43% le cifre dei scenari previsti).

I paesi in via di sviluppo passeranno dal 15% di oggi a cifre intorno al 12%. Come si vede, i paesi emergenti guadagneranno parecchio terreno, portando via una piccolissima quota di pil alle economie in via di sviluppo e una ben più grossa a quelle ricche. Sia i paesi emergenti che quelli in via di sviluppo marceranno a ritmo più sostenuto di quelli avanzati.

Uno dei fattori che maggiormente incrementeranno questa dinamica sarà la classe media: in netta diminuzione, sia in termini numerici che di consumi, in Europa e in Usa, in robusta ascesa nel sud est asiatico. Nel dettaglio, oggi la classe media nordamericana è composta da 338 milioni di persone, il 18,3% dell’intera classe media mondiale.

Nel 2030 scenderà al 6,6% (322 milioni). L’Europa, che oggi ha la classe media più numerosa del mondo, 35,9% del totale, scenderà al 13,9%. Il sud est asiatico passerà invece dall’attuale 28,5% al 66,1% del 2030. In termini di consumi, il Nordamerica passerà dal 26,3% gi oggi al 10,5% del 2030, l’Europa dal 38,2% al 20,4%, il Sud Est asiatico dal 23,3% al 58,5%.