Non si è fatta attendere la reazione dei sindacati insieme a governo e parti sociali, dopo il dietrofront di Sergio Marchionne sul progetto “Fabbrica Italia“, ossia il piano di rilancio reso noto nel 2010, che avrebbe portato al rilancio del costruttore auto torinese. Lapidaria il ministro Elsa Fornero, che attende d’incontrare il manager per uno scambio di vedute senza intermediari: “Ho molte cose da chiedergli. La Fiat è ormai una multinazionale, ma è anche una grande industria italiana. Per questo Marchionne ha il dovere di spiegarci quali sono le sue strategie per l’Italia”.
L’attesa, sebbene la crisi non può essere eterna, aggiunge il ministro del lavoro. La replica del manager in partenza per gli Stati Uniti, si è rivelata sibillina, sostenendo, appunto, che farà sapere nei prossimi giorni. Intanto, il telefono della Fornero non squilla e poco si sa sulle presunte modifiche ai contenuti di un piano che aveva messo in conto 20 miliardi d’investimenti per gli stabilimenti italiani della Fiat.
Se il “quadro generale è cambiato”, secondo il parere dell’amministratore delegato, resta un quesito pesante come un macigno che grava sull’intero assetto economico del paese. L’apprensione di governo e sindacati è che Fiat riduca il livello occupazionale, decretando la dismissione di uno o più poli produttivi: Mirafiori, Pomigliano, Cassino, Melfi e Grugliasco dove si realizza la Maserati.
Un silenzio che assilla i diretti interessati: gli operai con continui turnover in cassa integrazione, le parti sindacali e lo stesso governo che ammonisce di non poter attendere fino al CDA del 30 ottobre prossimo. Un tempo troppo lungo, nonostante l’Ad abbia confermato questa data per diramare informazioni contingenti all’esito di prodotti e stabilimenti, in occasione dei risultati nel terzo trimestre.
Contemporaneamente dilagano le ipotesi: pare che a Piero Fassino, sindaco del capoluogo piemontese, Marchionne abbia riferito, circa 10 giorni fa, di non volere esiti choc per le fabbriche italiane, seppur ci siano conti da dover fare in un momento difficile per tutti. Durissima, invece, è stata la reazione di Diego Della Valle: per l’imprenditore marchigiano è il management Fiat a rivelarsi pressoché “inadeguato: non all’altezza della situazione sia l’amministratore delegato sia il presidente”, accusati senza mezzi termini di produrre troppe conferenze stampa da Detroit in cui è detto tutto e il contrario di tutto. “Il vero problema è la dirigenza Fiat, non la crisi internazionale, né tantomeno i lavoratori” continua Dellla Valle, sulla cui presa di posizione, al momento non c’è stata alcuna risposta da parte di Sergio Marchionne né di John Elkann.
Sul sentiero di guerra anche le parti sindacali, comprese Cisl e Uil: Susanna Camusso (Cgil), a fronte di nessuna politica industriale, chiede di riaprire il dibattito col governo. Tutti contro Fiat, dunque, ma Raffaele Bonanni (Cisl), proprio oggi (17 settembre), dichiara di non pentirsi affatto del precedente accordo stilato a Pomigliano e di conseguenza esteso agli stabilimenti torinesi. A suo avviso, al di là d’ogni disfattismo, la Cisl ha indotto Fiat a investire 800 milioni di euro, grazie a quell’intesa fra lavoratori e casa di produzione. Luigi Angeletti (Uil), esprime palesemente l’inaccettabilità per una qualsiasi riduzione della capacità produttiva, asserendo di credere ancora che Fiat possa annoverarsi fra le case automobilistiche più competitive sul mercato: “Ma bisogna crederci con gli investimenti necessari”.