La conferenza stampa è stata indetta nella serata di giovedì (15 novembre) e con self control tipicamente anglosassone, la compagnia British Petroleum, principale imputata per la fuoriuscita del petrolio che, nel 2010, causò il disastro nel Golfo del Messico, ha confermato l’accordo con le autorità americane, se di accordo si può parlare: “Abbiamo accettato le responsabilità delle nostre azioni”, ha dichiarato l’ad, Bob Dudley, manifestando tutto il proprio rammarico per il ruolo assunto dalla compagnia, prima e dopo l’increscioso incidente.
In pratica, la BP che gestiva la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, corrisponderà alle casse americane un risarcimento senza precedenti, il più ingente della storia, pari a 4,5 miliardi di dollari (oltre 3,5 miliardi di euro), senza contare le decine di miliardi in corso di versamento. L’accordo è pertinente alle undici accuse inerenti alle vittime dell’incidente e alle loro famiglie, agli enormi danni ambientali arrecati, alle menzogne, ritenute dal giudice e dal Congresso statunitense, “gravi ostruzioni” nella ricerca delle verità processuali.
Nel frattempo che l’ex amministratore delegato, Tony Hayward, si era dimesso a tre mesi di distanza dal disastro, certo è che due persone, si suppone due alti dirigenti, siano stati formalmente indagati per omicidio colposo, rei, secondo la corte suprema americana, dell’esplosione avvenuta e della morte d’undici operai.
Secondo le autorità, BP aveva tentato di sminuire i propri errori, fornendo cifre inattendibili (dodici volte inferiore), rispetto alla reale quantità di petrolio fuoriuscito nell’aprile del 2010 dalla Deepwater Horizon, la piattaforma situata a soli ventisei miglia dalla Louisiana. La cifra sarà rateizzata in diverse fasi: 4 miliardi nell’arco di cinque anni e sanzioni per 525 milioni saranno man mano corrisposte in tempi più veloci. Un risarcimento senza precedenti, quindi, che supera il precedente record legato a un’altra sciagura petrolifera, che coinvolse, nel 1989, la nave cisterna Exxon Valdez, arenatasi sulle coste dell’Alaska e colpevole d’aver versato in mare 42 milioni di barili. La compagnia fu multata per un miliardo di dollari (1,8 miliardi ai valori attuali); anche allora si verificarono falsificazioni e omissioni, in seguito palesate dalla commissione d’accusa. Un precedente anche nel 2009, quando il laboratorio farmaceutico Pfizer fu indotto dal governo americano a corrispondere un indennizzo pari a 1,3 miliardi, per aver attuato pratiche commerciali proibite.
Nell’ambito del procedimento penale, il Dipartimento di Giustizia americano esige, altresì, una dichiarazione di colpevolezza sottoscritta dalla compagnia inglese; si ricorda che furono ben ottantasette i giorni in cui milioni di barili di greggio inquinarono irreparabilmente l’ambiente marino e terrestre intorno alle coste di Florida e Louisiana; dalle indagini è emerso che l’allarme anti fuga del petrolio era stato da qualche tempo disattivato.
Restano ancora aperte alcune posizioni, come la controversia sulla cifra da liquidare agli Stati del Golfo del Messico, ai soccorritori, che, nei mesi successivi agli eventi, lamentarono strani disturbi, dovuti all’inalazione di sostanze tossiche, ai proprietari di case, barche e allevamenti nelle zone colpite dalla marea nera.
Notizia dell’ultima ora: per diretto volere del presidente, Barak Obama, il governo e gli avvocati di parte civile hanno citato in giudizio la società Transocean, proprietaria della piattaforma, insieme al gruppo Halliburton. Una sentenza è prevista a gennaio, ma anche la stessa BP ha inoltrato querela, reclamando un danno pari a 40 miliardi di dollari.