Per certe società europee e multinazionali americane il gioco è stato bello ma è durato poco. Sembra che la Commissione Europea abbia deciso di far fronte e bloccare le furberie fiscali architettate nel paese nordeuropeo, dove, chi è riuscito a beneficiare di lacune legislative in tema di tasse, ha potuto “eludere” cospicue somme sottraendole all’erario dei rispettivi stati. Disattenzioni che però hanno le ore contate, giacché la Commissione Europea si appresterebbe a legiferare una riforma ad hoc, curando la malattia sul nascere.
I primi sono stati i reporter del quotidiano “La Repubblica” a svelare un meccanismo neanche capzioso mediante il quale i guadagni al lordo delle tasse finivano dritti nelle banche d’Irlanda, paese che, grazie a una legislazione smodatamente soft, concedeva benefici a larghe mani,
sottraendo dalle casse statali dell’Unione Europea come pure dal severo sistema fiscale statunitense, svariati miliardi (circa sessanta), tra dollari ed euro.
Tra i neo evasori spiccano molti nomi celebri e lo cosa non deve stupire: famous trademark come Google, Amazon, la catena cafeterias di Starbucks. La commissione di Bruxelles vuole altresì estendere la definizione di “paradiso fiscale”, anche a quei paesi (e alle imprese), la cui condotta manca di “trasparenza”, ricorrendo arbitrariamente al rifiuto categorico di fornire quel dovuto scambio d’informazioni cosiddette “riservate”.
In seguito alle indagini tributarie, Google se l’è cavata con una multa che attesta (appena) dieci milioni di dollari, mentre Starbucks, sull’onda di una mega evasione, pare abbia coinvolto anche altri paesi del Vecchio Continente (Svizzera e Olanda); Amazon rischia l’ammenda più alta, ben 252 milioni di dollari.
I colossi finanziari che ricorrono alla black list dei paradisi fiscali disseminati nel mondo, sono attratti dalla riservatezza su informazioni e beneficiari e sulle operazioni svolte. Senza contare che i governi dei “tax heaven” non richiedono alle società estere prove inconfutabili sulle attività svolte nel proprio territorio, escluso, ovviamente d’ospitare nelle proprie banche, ingenti conti segreti.
Fino a qualche anno fa, erano quasi tutti paesi offshore a offrire porte aperte e bocche chiuse per le somme evase. Negli ultimi anni il calderone sembra essersi allargato; alla Svizzera, notoriamente regno incontrastato d’evasori fiscali, si aggiungono capitali come Singapore, Dublino e Londra. Clamoroso il caso Valentino Rossi, che aveva stabilito la sua residenza londinese per sfuggire al fisco italiano.
Per effetto della crisi, la lotta ai paradisi fiscali pare abbia subito un’accelerazione. D’altronde, una volta svuotate le casse dei grandi paesi occidentali, gli stessi sono stati costretti a varare colossali input all’economia e gravosi salvataggi bancari. Un passaggio importante è stato messo in pratica nel 2009, durante il meeting mondiale del G20, consegnando un incarico all’Ocse, che, da parte sua, non si è limitata a stilare la lista nera per quei paesi non collaborativi, ma ha spinto sul piano legislativo per giungere a misure concrete. E dunque, succede che in Svizzera si rivedano le norme sul “segreto bancario” e che molti ex paradisi fiscali comincino a siglare accordi bilaterali che favoriscano lo scambio d’informazioni.