Il lavoratore dipendente, qualunque sia la sua qualifica, ha l’obbligo della fedeltà, cioè l’obbligo di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro (art. 2105 del Codice civile). Inoltre, egli deve astenersi dal tenere una qualunque condotta che sia in contrasto con i propri doveri o che generi un conflitto con gli interessi dell’impresa o che possa ledere il rapporto fiduciario che lo lega al datore di lavoro (sentenza Corte di cassazione n. 11220 del 2004).
Il venir meno del rapporto fiduciario può costituire giusta causa di licenziamento. Così, ad esempio, si considera giusta causa di licenziamento, la commissione di reati nell’esercizio delle proprie mansioni (come il furto o il tentativo di furto di beni aziendali, la concessione di prestiti a tassi usurari ai colleghi, l’appropriazione indebita di beni aziendali o del denaro dell’azienda).
Invece, i comportamenti tenuti dal lavoratore al di fuori dell’ambito lavorativo possono arrivare a giustificare il suo licenziamento se incidono sul rapporto di fiducia che deve intercorrere tra dipendente e datore di lavoro. Pertanto, i fatti della vita privata del dipendente, verificatesi al di fuori della sfera lavorativa, non incidono sul rapporto di lavoro, a meno che essi non siano talmente gravi da influenzare il rapporto di fiducia di cui si diceva in precedenza con la conseguenza di rendere praticamente impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. Ciò può verificarsi, ad esempio, nel caso di commissione di reati da parte del dipendente nella propria vita privata (come nel caso di emissione di assegni a vuoto, appropriazione indebita, falsa testimonianza, detenzione di sostanze stupefacenti, ecc.). In queste ipotesi occorre verificare, caso per caso, se tali comportamenti vanno a danneggiare in modo irrimediabile il rapporto di fiducia o l’immagine dell’azienda. La valutazione non va fatta in modo astratto, ma con riferimento al caso specifico, alla natura e alla qualità del rapporto e alla gravità del fatto commesso.
Fatte queste premesse, passiamo ad esaminare l’ipotesi in cui il lavoratore dipendente sia un dirigente. Per i dirigenti non è ammissibile il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ma in presenza della giustificatezza dello stesso. Per altro, il rapporto che lega il dirigente al datore di lavoro non è fondato su una generica fiducia, propria di qualsiasi rapporto di lavoro, essendo il dirigente dotato di una maggiore autonomia, di una discrezionalità decisoria e mancando per lui una vera e propria dipendenza gerarchica. Il dirigente è una sorta di alter ego dell’imprenditore e lo rappresenta all’interno dell’azienda e nei rapporti con i terzi. È evidente, allora, che il comportamento extralavorativo del dirigente può incidere sulla prosecuzione del rapporto di lavoro facendo venire meno quella fiducia particolare che deve esistere tra le parti. Pensiamo anche al caso in cui a tale comportamento dovesse essere data un’ampia diffusione a mezzo stampa, con un’inevitabile conseguente grave perdita di immagine per la società.
Sulla questione si è espressa anche la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 15496 dell’11 giugno 2008, ha affermato che il comportamento extralavorativo del dirigente che incide negativamente sull’immagine aziendale, a causa della posizione di rilevanza rivestita, può giustificarne il suo licenziamento.