Viene considerato lavoro straordinario quello che eccede il normale orario di lavoro. Il D.Lgs. 66/2003 prevede come normale orario di lavoro quello delle 40 ore settimanali, anche se i contratti collettivi possono prevedere limiti più bassi. Il lavoro straordinario viene, di norma, retribuito con una maggiorazione rispetto alla retribuzione spettante per lavoro ordinario: la misura di questa maggiorazione è fissata dai contratti collettivi. Questi ultimi, tuttavia, possono prevedere anche dei riposi compensativi anziché la maggiorazione della retribuzione.
Questa è la disciplina generale del lavoro straordinario. Ai dirigenti non si applicano le norme relative ai limiti di orario di lavoro: essi, infatti, possono avvicendare in modo autonomo lavoro e riposo, a condizione che venga rispettato l’obbligo di lavoro quotidiano. Di conseguenza se il dirigente presta la propria attività lavorativa oltre il normale orario di lavoro, non ha diritto al compenso per lavoro straordinario.
In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione che, con la sentenza n.101 del 1975 ha ritenuto giustificato il diverso trattamento tra i dirigenti e le altre categorie di lavoratori dipendenti proprio perché i dirigenti sono dotati di «poteri di iniziativa ed autonomia nell’esercizio di un’attività di lavoro qualitativamente superiore, che ammette e spesso richiede interruzioni e discontinuità, e per la quale non possono stabilirsi vincoli normali e costanti di orario, perché la sua durata é essenzialmente legata alla speciale natura delle funzioni e alle connesse responsabilità, e quindi necessariamente variabile. Di conseguenza, anche la retribuzione del personale investito di funzioni direttive non é stabilita in rapporto alla quantità del lavoro prestato, bensì essenzialmente con riguardo alla qualità di tale lavoro, che, per la sua natura, non sembra suscettibile di stima e remunerazione commisurata ad ore, così come avviene per il lavoro ordinario e straordinario di altre categorie di lavoratori».
Tuttavia la stessa sentenza ritiene che «un limite quantitativo globale, ancorché non stabilito dalla legge o dal contratto in un numero massimo di ore di lavoro, sussiste pur sempre, anche per il personale direttivo, anzitutto in rapporto alla necessaria tutela della salute ed integrità fisio-psichica, garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori, e, sempre nel rispetto di questo principio, in rapporto alle obbiettive esigenze e caratteristiche dell’attività richiesta alle diverse categorie di dirigenti o funzionari con mansioni direttive: talché al giudice è sicuramente consentito di esercitare, nelle singole fattispecie, un controllo sulla ragionevolezza della durata delle prestazioni di lavoro pretese dall’imprenditore, con riguardo alla natura delle funzioni espletate ed alle effettive condizioni ed esigenze del servizio, secondo i diversi tipi di imprese».
Le sentenze della Corte di Cassazione che si sono succedute nel tempo, hanno individuato due criteri da utilizzarsi per stabilire se il dirigente abbia prestato del lavoro straordinario con il conseguente diritto alla maggiorazione. Il primo di tale criteri è il limite della ragionevolezza, mentre il secondo è quello della prassi aziendale.
Il criterio della ragionevolezza è piuttosto soggettivo e risulta di non facile applicazione, per cui, in genere, si fa riferimento al criterio della prassi aziendale con la conseguenza che si considera lavoro ordinario del dirigente quello prestato mediamente dagli altri dirigenti della stessa impresa.