Quando in trasferta va il partner

di Barbara Weisz

23 Settembre 2010 15:10

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Nella stragrande maggioranza dei casi, il partner del manager in trasferta è laureato e ha un impiego, che è costretto a lasciare. Studi e analisi

«Lo stereotipo della placida moglie casalinga felice di sacrificare le proprie ambizioni per per la carriera del marito, è una fotografia in cui pochi si riconoscono ai nostri giorni». A sottolinearlo, è il recente studio dell’Economist Intelligence Unit sui manager che vengono inviati in trasferta (Up or out: next moves for the modern expatriates).

Quello del “trailing spouse”, il partner al seguito, è un problema che le aziende continuano a porsi poco, ma che invece rappresenta un punto importante. Esistono società di consulenza e organizzazioni che se ne occupano specificamente, facendo azione di sensibilizzazione nei confronti dei governi per facilitare le pratiche di ottenimento dei permessi lavorativi, e nei confronti delle aziende per mettere in campo strategie adeguate al mondo del terzo millennio. Ed esistono studi specifici sull’argomento.

Innanzitutto, giusto per sfatare lo stereotipo della casalinga di cui sopra, se nella stragrande maggioranza dei casi il manager a cui viene proposta la trasferta è un uomo, il trend sta cambiando. La Survey 2010 di Brooksfiled Global Relocation Services indica che il 17% dei manager che fanno un’esperienza all’estero sono donne.  

Fra il totale di coloro che vengono trasferiti (uomini e donne) il 70% ha un coniuge. La percentuale di uomini sposati è pari al 63%, la più alta da quando esiste il report (1999). Per contro, ad accompagnare il coniuge o il convivente all’estero (e qui torniamo a parlare di entrambi i sessi) è il 79% dei partners, e questa è la seconda percentuale più bassa dal 1999. È invece il dato più basso di sempre quello dei bambini che vengono portati all’estero, pari al 47%. Insomma, emerge un trend in cui c’è difficoltà a convincere il partner a spostarsi, difficoltà che aumenta sensibilmente quando ci sono anche dei figli.

Vediamo un’altra ricerca, la Global Spouse Survey della Permits Foundation. Il partner, sposato o meno, è una donna nell’85% dei casi e un uomo nel restante 15%. Si tratta di mariti o mogli nel 93% dei casi, mentre gli altri, il 7%, sono conviventi o fidanzati.

È molto alta, pari all’82% la percentuale dei partner che ha come minimo una laurea (il 40% ha addirittura un master, il 6% un dottorato). Che cosa fanno? Prima di partire, il 90% aveva un impiego. In trasferta, questa percentuale crolla al 35%, mentre il 65% degli “accompagnatori” resta senza un’occupazione. Ma non ne sono contenti: i tre quarti di coloro che smettono di lavorare vorrebbe trovare un impiego. Questa percentuale sale ancora fra i più giovani, maschi, non sposati e laureati.

Gli esperti che hanno condotto la ricerca sottolineano che si tratta di una notevole dispersione di professionalità. Fra l’altro, il mancato accordo con il partner spesso impedisce il trasferimento: il 22% dei manager a cui viene proposta la trasferta rifiuta per la preoccupazione relativa alla carriera del partner, nel 7%, pur avendo accettato, torna indietro prima del previsto.

Le aziende non sono particolarmente sensibili al problema, in genere propongono al massimo una somma in denaro a disposizione del partner per un trainig o un corso di suo interesse. Rari in casi in cui al partner si offre un impiego nella stessa azienda (anche perchè probabilmente le competenze spesso sono diverse) ancor più rari quelli in cui lo si aiuta, con gli strumenti che il mercato mette a disposizione, a trovare un lavoro.