L’Italia, popolo di santi, poeti, navigatori e… doppiolavoristi.
Nel Bel Paese, ad avere due occupazioni sono circa 4,8 milioni di persone. Il quadro sconvolgente è emerso a margine della pubblicazione del rapporto Istat 2009: su un totale di 24.838.000 occupati in media annua infatti ci sono 29.617.000 posizioni lavorative.
Un dato che sicuramente fa riflettere, considerando che, nella maggior parte dei casi, i due lavori si affiancano di pari passo per anni, ovvero un’occupazione regolare viene accompagnata, quasi sempre, da un’altra svolta in nero. Si tratta di un fenomeno che interessa, perlopiù, settori come il commercio, la ristorazione, gli alberghi ed i servizi alla persona. Per avere un’idea basti pensare che, nell’ambito del commercio cosiddetto “allargato” (che comprende commercio, trasporti, comunicazioni, ecc.) nel 2009 gli occupati totali erano 6.052.000, mentre le posizioni di lavoro ben 8.358.000 con una differenza di oltre 2,3 milioni di unità.
Altre forme di duplice occupazione, seppur con minori percentuali, si riscontrano, ad esempio, nei lavori domestici. In questo caso si tratta quasi sempre di lavori part time eseguiti per riuscire ad arrotondare lo stipendio.
O ancora, per circa 900mila persone, il secondo lavoro è in agricoltura, con l’autoproduzione nel proprio orto di casa o l’impiego nella coltivazione e nel raccolto nei campi di altri. L’elemento che fa più riflettere, in quest’analisi impietosa, è la conseguenza, più o meno diretta, che un esercito di cinque milioni di persone può provocare nelle elaborazioni dei prospetti riguardanti la disoccupazione in Italia.
Senza dubbio, il minimo che può succedere è di trovarsi con dei rapporti sicuramente falsati, che non tengono conto dei “doppiolavoristi” e dei lavoratori in nero, che si agitano nel limbo dell’economia sommersa.
La somma delle precarietà dà almeno più sicurezza? Non ne è affatto convinto Alessandro Rimassa, autore del libro “Generazione mille euro” e conduttore di “Italian job” su La3Tv, che afferma: «Purtroppo no, è solo una rincorsa a fare di più e si finisce per lavorare fino a 13 ore al giorno con uno stress notevole e senza certezze sul futuro. Se fossero “corretti” i contratti a progetto consentirebbero anche senza tanta fatica di darsi da fare su più fronti, ma in realtà si svolgono mansioni da dipendente subordinato con orari lunghi».
Si tratta, in sostanza di un ritorno al passato, aggiunge Rimassa, «si svolgono più lavori per arrivare a un unico stipendio e assicurarsi la necessaria continuità tra un contratto all’altro».
Secondo Antonio Lombardi, presidente di Alleanza Lavoro (Associazione di categoria delle Agenzie per il lavoro ) invece, basterebbe “accontentarsi” dei lavori che accettano gli immigrati e gli italiani rifiutano. «Da Reggio Emilia, mi sono stati chiesti 7 infermieri, non li ho trovati. Dovrò cercarli in Romania – e conclude – Se ci sono turni di notte e festivi da lavorare gli italiani respingono l’offerta».