Il nostro paese sta invecchiando, la disoccupazione giovanile è elevata, i migliori cervelli fuggono all’estero, i giovani tendo a rimanere nella famiglia di origine sempre più a lungo: ogni giorno leggiamo e sentiamo notizie di questo tipo.
Ma qual è realmente la situazione dei giovani nel nostro paese? Lo chiarisce un rapporto realizzato da ManagerItalia (Federazione dirigenti, quadri e professional del terziario) in collaborazione con Alessandro Rosina (professore di Demografia all’Università Cattolica di Milano) e Paolo Balduzzi (ricercatore di Scienza delle finanze all’Università Cattolica di Milano).
Il quadro che ne viene fuori non è niente affatto roseo. La popolazione italiana sta invecchiando. Secondo l’Istat nei prossimi dieci anni gli italiani con una fascia di età compresa tra i 20 e i 39 anni sarà superata per la prima volta da quelli di età compresa tra i 50 e i 69 anni. Il tasso di disoccupazione dei giovani italiani con meno di 25 anni è del 27,9%: uno dei più alti in Europa. Il tasso di disoccupazione dei giovani laureati è superiore rispetto alla media europea e supera di tre volte quello statunitense.
Non è del tutto vero, invece, che il nostro paese subisce una fuga di cervelli. Secondo i dati dell’OCSE del 2005 su 100 studenti che si laureano, 5,7 decidono di lasciare l’Italia: si tratta di una percentuale più o meno in linea con quella degli altri paesi europei. Quello che è diverso rispetto agli altri paesi europei è la capacità di attirare altrettante persone con un elevato livello di istruzione dagli altri paesi.
La classe dirigente italiana ha, in media, un’età di 47,7 anni, mentre la media europea è di 44,7 anni. Il titolo di studio e il livello del salario dei figli è in diretta relazione con quello dei padri.
I figli di genitori laureati guadagnano mediamente il 50% in più rispetto a chi ha genitori con un titolo di studio inferiore, a parità di altre condizioni. Inoltre, solamente il 10% dei giovani con genitori aventi un basso titolo di studio riesce a conseguire una laurea.
Questo quadro, non certo brillante, trova le sue ragioni anche nelle scelte di welfare pubblico. Nel nostro paese, la spesa per la protezione sociale è indirizzata soprattutto verso le pensioni e molto meno verso forme di sostegno del reddito in caso di disoccupazione o verso forme di formazione o di reinserimento nel mercato del lavoro. Questo spiega perché i giovani italiani preferiscono rimanere a lungo all’interno della famiglia di origine e, protetti da essa, finiscano per accettare di lavorare a condizioni economiche che, altrimenti, non potrebbero tollerare.
C’è poi il grosso problema dell’istruzione. Tra il 1995 e il 2005 la quota del PIL dedicata all’istruzione è rimasta invariata e, in ogni caso, a livelli inferiori rispetto alla media dei Paesi OCSE. Ma anche sul fronte della qualità dell’istruzione le cose non vanno meglio.
Gli studenti italiani con scarsa capacità di lettura sono passati da, meno di uno su cinque del 2000, a oltre uno su quattro del 2006. Dati analoghi si hanno anche per materie quali matematica e scienze, quindi proprie in quelle materie alle quali sono dedicate il maggior numero di ore di insegnamento rispetto agli altri paesi.