Facebook ha perso molto dall’Ipo in Borsa, con un valore delle azioni sceso continuamente fino a perdere, a quattro giorni dalla quotazione, circa il 15% rispetto al prezzo stabilito nella giornata di collocamento. Gli azionisti sono delusi e hanno avviato una class action contro Facebook, Mark Zuckerberg e il suo CdA, nonché il NASDAQ.
E sì che sembrava un investimento sicuro e uno tra i più prolifici in questo periodo di grande incertezza economica, eppure Facebook ha visto un vero e proprio flop in Borsa: una beffa per gli azionisti che hanno appunto avviato un’azione collettiva contro coloro che ritengono responsabili di tale insuccesso.
Mark Zuckerberg e il consiglio di amministrazione di Facebook vengono denunciati per non aver informato gli investitori che le stime di crescita del social network erano state “ridotte in modo significativo” dagli analisti prima dell’Ipo. Quindi da una parte gli azionisti hanno pagato più del dovuto le azioni e dall’altra il team di Menlo Park ha potuto raccogliere 16 miliardi di dollari in più del previsto.
Il Nasdaq è citato per danni in una delle tre cause giudiziarie, presentata alla corte federale di Manhattan da un investitore del Maryland, dove lo si accusa di negligenza e di aver causato ingenti danni economici agli investitori.
Nella terza causa, invece, gli investitori hanno citato per frode le banche che fanno parte del consorzio di collocamento: spuntano anche sospetti di insider trading. In sostanza, pochi giorni prima dell’Ipo di Facebook, alcune banche – tra le quali Morgan Stanley – avrebbero scoperto come le prospettive di reddito futuro del team di Mark Zuckerberg siano meno brillanti di quanto ipotizzato e di quanto era stato scritto nella documentazione inviata alla SEC.
Morgan Stanley ha riposto alle accuse dichiarando di “aver seguito le stesse procedure applicate per ogni altro collocamento”, ma al NASDAQ si respira aria di nervosismo. Intanto una società di analisi facente parte del gruppo Standard & Poor’s, ha consigliato di vendere i titoli di Facebook esprimendo “dubbi sull’efficacia della piattaforma pubblicitaria, sui margini di redditività legati ai messaggi di marketing, e sui rischi che derivano dall’uso di informazioni personali sensibili”.