Marketing o Privacy? Alla ricerca del compromesso perduto…

di Noemi Ricci

Pubblicato 15 Aprile 2008
Aggiornato 12 Febbraio 2018 19:33

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Pur di comprendere le esigenze dei propri clienti e centrare gli obiettivi commerciali con un approccio di marketing sempre più mirato, le aziende tendono spesso a muoversi su un campo minato, divenendo in più di un’occasione a dir poco invadenti con le proprie indagini conoscitive e sempre meno rispettose della privacy dei clienti, effettivi e potenziali.

Sta di fatto che sono in netta crescita le tecniche di “behavioral targeting”, ossia quel sistema di marketing online basato sull’osservazione dei comportamenti degli utenti e con cui gli inserzionisti ricavano informazioni e gusti su cui incentrare le proprie campagne pubblicitarie. Un approccio a tutto tondo che comprende anche il ricorso a software di marketing intelligence, come ad esempio Cogito Monitor di Expert System.

Come già  detto, si tratta di una soluzione in grado di monitorare sul Web la reputazione delle aziende in virtù dell’analisi semantica delle opinioni presenti sui siti.

Sul tema si è espresso anche Sir Timothy Berners-Lee, “padre del Web”, ai microfoni della BBC dicendo no al behavioral advertising, non apprezzando il principio di tracciamento dei navigatori che, a sua detta, è semplicemente affar loro.

Secondo Berners-Lee, le aziende pubblicitarie dovrebbero negoziare esplicitamente con i diretti interessati. Sir Timothy sembra così dar voce a tante delle perplessità  espresse nell’ultimo periodo dai paladini della privacy, preoccupati dall’avanzare spesso indiscriminato di questi strumenti-spia online.

Spezzando una lancia nei confronti delle aziende, però, c’è da dire che agli utenti non sempre dispiace ricevere pubblicità . Tuttavia, soltanto a patto che riguardi esattamente servizi e prodotti cui si è oggettivamente interessati.
Ad infastidire i clienti sarebbe infatti solo la pubblicità  indesiderata, il che sembra anche piuttosto comprensibile, come conferma un’indagine effettuata da TRUSTe, organizzazione non profit tra le più attive nel campo della privacy.

Lo studio ha analizzato le reazioni degli utenti statunitensi nei confronti del behavioral targeting: ben il 60% dell’utenza americana è perfettamente cosciente di essere monitorato per fini commerciali, ma solo il 40% sa cosa sia il “behavioral targeting”.
Gli intervistati mostrano un dissapore condiviso nei confronti della continua invasione della privacy, ma anche della pubblicità  non di proprio gusto (superiore ai tre quarti): infatti, il 72% afferma di non vedere soddisfatte le proprie esigenze.

Questa sembra una vera e propria contraddizione in termini: si alla pubblicità  personalizzata in base a propri gusti e abitudini, ma senza invadere la privacy con strumenti di osservazione.
Le aziende dovrebbero quindi tirare ad indovinare? O forse la profilazione va bene, ma solo se “perfetta”?

Il 91% del campione sembra seguire questa seconda tesi, dichiarando di essere disposto ad agire attivamente per assicurare la propria privacy e individuare un modo per fornire la pubblicità  desiderata, trovando un compromesso tra proprie esigenze e quelle del marketing aziendale. Questo, però, in maniera trasparente: ad esempio tramite pulsanti, icone o marchi conosciuti con cui accettare o meno il trattamento pubblicitario su misura.