Arriva con un emendamento al Ddl Stabilità la proposta di una Web-Tax, o Google Tax, che mira a tassare l’e-commerce e la pubblicità on-line per combattere l’evasione fiscale on-line.
Web Tax
Si tratta di una proposta di legge presentata dal Presidente della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (PD) per tassare le campagne online promosse in Italia da colossi come Google, Facebook, Amazon e così via. Si vogliono in questo modo mettere sullo stesso piano, dal punto di vista della tassazione, i venditori online ed i commercianti italiani, regolarmente iscritti alla Camera di Commercio, titolari di regolare Partita IVA e pertanto soggetti a tassazione secondo il regime vigente. Il Governo vuole imporre l’obbligo per il committente ad acquistare beni o servizi on-line esclusivamente da soggetti titolari di Partita IVA italiana, andando ad agire anche sul regime di concorrenza oltre che sull’evasione fiscale, il cui valore ad oggi è stato stimato intorno al miliardo di euro.
Critiche alla Web Tax
L’emendamento al Ddl Stabilità sulla Web Tax ha però suscitato non poche polemiche non poche polemiche anche all’interno dello stesso Pd a partire da quelle del candidato alla segreteria del Partito Democratico e e vice presidente vicario del Parlamento Europeo, Gianni Pittella, per il quale «l’emendamento alla Legge di Stabilità che riguarda la vendita di servizi on line rischia di influenzare negativamente lo sviluppo dell’economia web, uno dei pochissimi comparti che ancora resiste alla crisi» e pertanto «va cancellato». In più, aggiunge Pittella, «questo emendamento sembra rappresentare una rottura del principio di libertà di insediamento e libera circolazione di beni e servizi contenuta nei Trattati. Si prevede infatti l’obbligo di acquistare servizi online esclusivamente da società che abbiano una partita IVA registrata in Italia e sarà applicabile a tutti i siti web accessibili dall’Italia. Considerato che il provvedimento potrebbe limitare lo sviluppo di un mercato Europeo Digitale dei servizi online e che è contrario ai principi del Mercato Unico, chiederò attraverso un’interrogazione scritta alla Commissione quali passi intenda intraprendere per assicurare che le imprese (comprese quelle digitali) possano operare in un quadro legale chiaro e coerente».
Della stessa linea di pensiero Confindustria Digitale, AmCham (la Camera di Commercio Usa in Italia) e una buona parte del M5S. Per il presidente di Confindustria Digitale, Stefano Parisi, «la cosidetta Web Tax non è compatibile con l’UE, non si può fare solo in Italia, ed è concettualmente sbagliata perché l’economia va sostenuta e non spremuta». In sostanza, sottolinea il presidente di Confindustria Digitale, «quello che voglio è che la mia azienda sia messa nelle stesse condizioni di Google, non di tassare Google».
Per l’American Chamber of commerce in Italy (AmCham), l’emendamento «nasconde una volontà punitiva nei confronti delle imprese coinvolte e rappresenta un freno all’espansione dell’economia digitale in Italia che, secondo un recente rapporto di Assintel, vale il 3,1% del PIL nazionale. Dal punto di vista etico il concetto generale che chi produce reddito in Italia debba pagare le tasse nel nostro Paese è corretto, ma tale argomento dovrebbe essere condiviso a livello di Unione Europea o di altro organismo sovranazionale, come dimostrano le discussioni sul tema in corso all’Ocse. È doveroso precisare che attualmente le imprese straniere che offrono servizi online in Italia non violano alcuna legge in materia fiscale. Al contrario, orientamento all’innovazione tecnologica (i bassi investimenti in Ricerca & Sviluppo rappresentano uno dei principali svantaggi competitivi del nostro Paese), cultura delle start-up, arricchimento del know-how manageriale e spinta verso l’internazionalizzazione sono i benefici in termini di valore che queste aziende apportano al nostro mercato e in generale al nostro Paese. In aggiunta la formulazione di tale emendamento rappresenta una forte restrizione alla libertà di scelta dei consumatori italiani, siano essi individui o imprese. Come sottolineato da numerosi esperti del settore, tale norma, se approvata, potrebbe esporre l’Italia a una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, per possibili violazioni dei trattati e delle normative UE sui principi del mercato unico e della libera circolazione dei servizi»