Il demansionamento non è necessariamente una forma di mobbing secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 12770 del 23 luglio 2012), a meno che non si riesca a dimostrare l’intento persecutorio, del datore di lavoro o più in generale dell’azienda. Tuttavia, provoca un danno morale e professionale che dà diritto ad un risarcimento.
Il caso riguardava il ricorso di un’impiegata amministrativa contro la dequalificazione professionale (al ruolo di centralinista) operata dalla sua azienda.
La richiesta della dipendente: reintegro nella mansione precedente o equivalente e risarcimento danni (d’immagine, di professionalità, biologico, morale ed esistenziale).
La Corte di Cassazione ha però escluso che la dequalificazione del lavoratore operata rappresenti una forma di mobbing, pur svalutando la sua professionalità: in generale, che la Giurisprudenza richiede che il mobbing vada sempre provato, ma a tal fine demansionamento e dequalificazione non costituiscono una prova certa di una volontà oppressiva e vessatoria del datore di lavoro.
Nella fattispecie non costituivano prova di atto persecutorio la lettura delle e-mail del lavoratore perché correlate all’attività lavorativa e quindi non rappresentavano la violazione di una corrispondenza personale.
Alla lavoratrice è invece stato riconosciuto un indennizzo per il danno morale, biologico e professionale subito, poiché non vi è dubbio che la dequalificazione abbia svilito professionalmente il lavoratore.