Una società ha il diritto di allontanare dal posto di lavoro un suo dipendente che adotti comportamenti scorretti nei confronti dei colleghi, anche se riveste un ruolo dirigenziale.
Lo ha decretato la Corte di Cassazione di Milano che, con una sentenza d’appello, ha confermato il licenziamento di un responsabile interno di un esercizio commerciale del capoluogo lombardo, allontanato dal posto di lavoro nel 2005 per le “abitudini” scorrette nei confronti delle colleghe.
Se un capo si esprime in maniera triviale o scurrile verso gli altri dipendenti, quindi, può essere licenziato per «violazione dei principi di civiltà che non ammettono eccezioni, o attenuazione, neppure nell’ambito delle relazioni professionali».
Avere funzioni di supervisione o essere un caporeparto non significa poter approfittare del proprio ruolo di dirigenza. Ancor meno se si esercitano pressioni di tipo “minatorio” – minacce di licenziamento – sfruttando il porprio potere decisionale sul lavoro.
Dopo il licenziamento per giusta causa del dirigente di reparto, in realtà, il Tribunale aveva ritenuto eccessiva la sospensione dal lavoro, concedendogli “politically uncorrect” il reintegro. Giunto in Corte d’Appello, però, il licenziamento era stato invece convalidato dal momento che «per quanto l’ambiente di lavoro possa essere informale, nel comportamento e nel lessico usato non ci si può spingere fino alle maniere rozze ed eccessive per richiamare i dipendenti a una più esatta osservanza dei loro obblighi».
Dello stesso avviso anche la Suprema Corte, che ha messo un punto alla vicenda respingendo il ricorso del caporeparto, ritenendo che certi comportamenti ledano «la dignità e l’amor proprio del personale, oltretutto sottoposto a vincolo di gerarchia nei confronti del capo che commette tali scorrettezze».