Inviare un curriculum multimediale ad un’azienda quando si risponde ad un annuncio di lavoro è ormai una pratica diffusa. Produrre dettagli aggiuntivi su propri gusti e hobby ancora di più. Ma per poter disporre liberamente di tutte queste informazioni personali e farvi riferimento in fase di selezione è sempre necessario il consenso al trattamento dei dati personali. Fin qui nulla di nuovo.
Ciò che ha destato interesse in questi giorni, invece, è stato un articolo del quotidiano inglese The Guardian, che ha richiamato l’attenzione su un fenomeno che comincia a prendere piede negli ambienti di lavoro: l’abitudine a cercare informazioni aggiuntive in Rete su dipendenti e aspiranti tali, andando per blog, social network, siti personali, forum e così via.
Per quanto ci si appelli alla natura “pubblica” di tali informazioni, è altresì vero che chiunque abbia diritto a comunicare soltanto le informazioni pertinenti alle proprie competenze quando si fa domanda di lavoro: apprendere elementi privati da fonti web non è illegale, certo. Tuttavia, farsi influenzare nel proprio giudizio professionale da quanto saputo per vie traverse è pari ad una sorta di discriminazione, una violazione della privacy a fini illeciti.
Nella normativa italiana, lo si desume anche dalle “linee guida per posta elettronica e Internet” nel rapporto di lavoro, diramate dal Garante privacy e pubblicate in Gazzetta Ufficiale (n. 58, 10 marzo 2007).
Raccogliere informazioni personali su lavoratori dipendenti, così come sugli aspiranti all’assunzione, per usarli a scopi terzi senza la conoscenza e il controllo dell’interessato è illegale.
Sussiste violazione anche se un’organizzazione accede alle pagine Web o all’indirizzo email privato del candidato.
Allo stesso tempo, è chiaro che sarebbe una norma di buon senso non diramare con leggerezza informazioni che possono metterci in dificoltà in particolari contesti perché si sa, è impossibile fermare la potenza della seduzione esercitata della Rete.