Essendo dipendente pubblica (Sanità), per svolgere attività occasionale extra-ospedaliera devo chiedere l’autorizzazione al mio ente. Se emetto ricevuta (che inserirò poi nel reddito del 730) per il compenso che ricevo da un privato cittadino a cui erogo prestazione di counseling (non è l’attività che svolgo in Azienda), l’Amministrazione vuole sapere i dati di quest’ultimo: non è violazione della privacy nei suoi confronti? Sono obbligata a trasmetterli?
La domanda posta dalla lettrice è complessa perché la normativa sull’autorizzazione all’esercizio di incarichi da parte dei dipendenti pubblici non è di semplice interpretazione.
Innanzi tutto l’art.53 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165 sembrerebbe prevedere la richiesta di autorizzazione solamente qualora la prestazione sia svolta a favore di un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, ovvero di società o persone fisiche che svolgano attività d’impresa o commerciale (non il caso sottoposto alla nostra attenzione che riguarda un cittadino privato). Inoltre, il medesimo articolo, al comma 12 elenca tutta una serie di informazioni che l’amministrazione pubblica è tenuta a trasmettere annualmente al dipartimento della funzione pubblica e tra queste non si legge la necessità di trasmettere i dati anagrafici del soggetto che ha richiesto la prestazione.
Non si può però dimenticare che la preventiva autorizzazione è richiesta dalla Legge per escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione.
Come biasimare dunque la richiesta specifica dell’amministrazione che è responsabile del provvedimento autorizzativo? Come può essere effettuata una corretta valutazione di compatibilità di questa attività se l’amministrazione non è messa nelle condizioni di verificare chi l’abbia richiesta? Come sempre accade quando ci sono diversi interessi in gioco e le norme non rendono evidente il comportamento corretto da seguire, la soluzione viene con l’astuzia ed il buon senso.
La lettrice mi permetta di suggerire, dunque, due strategie percorribili: la via più semplice prevede di informare il privato cittadino che i suoi dati saranno comunicati all’ente di appartenenza del dipendente; con due righe di informativa sul trattamento dei dati (controfirmate per consenso) il problema della violazione della privacy è risolto. In caso di rifiuto al consenso, l’alternativa è chiedere alla propria amministrazione pubblica di specificare in base a quale riferimento normativo è necessario comunicare i dati del privato cittadino, poiché potrebbe esistere un documento di prassi regolamentare che lo giustifica. Una volta documentata la fonte normativa che rende obbligatoria la comunicazione dei dati, non ci sarebbe violazione della privacy del cittadino, né sarebbe necessario il suo consenso.
Michele Bolpagni – Consulente del Lavoro
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