Comporto e licenziamento del dipendente: ammesse le ferie

di Anna Fabi

Pubblicato 1 Novembre 2023
Aggiornato 10 Aprile 2024 07:16

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Cassazione: ok a ferie per evitare il licenziamento per superamento del periodo di comporto in malattia, regole e diritti per dipendente e azienda.

Una nuova ordinanza di Cassazione – la n. 26997 del 21 settembre 2023, Sezione Lavoro, Civile – chiarisce che la richiesta del dipendente in malattia di utilizzare le ferie per non superare il periodo di comporto ed evitare il licenziamento va respinta solo se esistono ragioni documentabili per le quali non sia possibile concederle e che il datore di lavoro non può negare l’aspettativa se prevista dal CCNL applicato.

In caso di malattia, il lavoratore ha infatti diritto a conservare il proprio posto di lavoro per tutto il periodo (c.d. di comporto) come stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva, nonché alla retribuzione o indennità prevista: durante tale periodo, il lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa. Si tratta di un aspetto contrattuale tornato in auge con la pandemia Covid, che ha messo in difficoltà migliaia di lavoratori fragili.

Vediamo nel dettaglio come funziona la normativa di settore per i dipendenti con contratto di lavoro subordinato.

Come funziona il comporto per malattia

Seppure ormai superata dalla contrattazione, resta in vigore come norma di chiusura l’art. 6, R.D.L. 13 novembre 1924 n. 1825, secondo cui in caso di malattia il dipendente ha diritto a conservare il posto di lavoro per 3 mesi se ha un’anzianità di servizio fino a 10 anni, per 6 mesi negli altri casi.

  • Si ha il periodo di comporto secco quando il periodo di conservazione del posto è stato stabilito con riferimento ad un unico episodio morboso di lunga durata.
  • Si parla invece di periodo di comporto per sommatoria quando ci si trova di fronte a una pluralità di malattie ripetute e intermittenti, che singolarmente non raggiungono il quantitativo richiesto per il comporto secco.

Come si calcola il periodo di comporto

Nella determinazione del periodo di comporto – secco o per sommatoria – si considerano, salva diversa pattuizione, anche i giorni non lavorati (sabato, domenica, festività infrasettimanali, sciopero) che cadono nel periodo di malattia, dovendosi presumere la continuità e l’indisponibilità del lavoratore.

Non si computano, invece, le assenze per malattia imputabile al datore di lavoro, derivanti cioè dalla nocività dell’ambiente di lavoro causata dalla violazione del dovere di sicurezza ex art. 2087 c.c. o quelle cumulate dal lavoratore invalido adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni. In questi casi, l’onere di provare la nocività delle mansioni ricade sul lavoratore. Non sono computati altresì i periodi di assenza a causa di gravidanza o puerperio.

Nel part-time orizzontale la durata del comporto è uguale a quella dei rapporti full-time. Nel part-time verticale, in mancanza di previsione contrattuale, è affidato al Giudice il compito di ridurre il periodo in proporzione alla quantità della prestazione, facendo eventualmente ricorso alle fonti sussidiarie quali usi o equità.

Cosa succede oltre il limite di comporto

Una volta superato il periodo di comporto, l’accettazione da parte del datore di lavoro della ripresa dell’attività lavorativa del dipendente non equivale di per sé alla rinuncia al diritto di recesso e non preclude il licenziamento, a condizione che il datore dimostri in maniera chiara il nesso tra la scadenza del comporto e la successiva risoluzione del rapporto.

Recesso e licenziamento

Il recesso del datore di lavoro deve avvenire con rispetto del periodo di preavviso. Il recesso, infatti, deve essere comunicato al lavoratore con tempestività, così da far risultare in maniera chiara la volontà datoriale di risolvere il contratto.

Se il comporto è in corso, la dichiarazione di recesso intimata al lavoratore assente per malattia è valida ma temporaneamente inefficace: il decorso del termine di preavviso è sospeso fino alla guarigione o alla scadenza del periodo di comporto.

Non trattandosi di licenziamento disciplinare, non è comunque necessaria alcuna contestazione: è sufficiente che sia stato superato il periodo di comporto e che tale circostanza sia invocata dal datore di lavoro a giustificazione del recesso.

Casi particolari

Anche se la malattia è insorta in precedenza, è nullo il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato alla lavoratrice nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, fino a un anno dopo la celebrazione stessa, come pure quello della lavoratrice madre fino al compimento di un anno di età del bambino.

Diritti e doveri connessi al comporto

Salvo che non sia diversamente previsto, il lavoratore non ha diritto incondizionato a mutare il titolo dell’assenza e quindi a godere un periodo di ferie arretrate al fine di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore deve prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente a evitare la perdita del posto di lavoro a seguito della scadenza del periodo di comporto, con l’onere, in caso di mancato accoglimento, di dimostrarne i motivi.

Tale obbligo viene meno quando il lavoratore possa, ai sensi del contratto collettivo e per le medesima finalità, chiedere il collocamento in aspettativa non retribuita.

Se non lo prevede la contrattazione, il datore non ha neppure l’obbligo di avvertire preventivamente il lavoratore della possibilità di avvalersi di un periodo di aspettativa al fine di evitare il superamento del periodo di comporto. Ma il nuovo Decreto Trasparenza questa valutazione diventa alquanto discutibile.

In ogni caso, al fine di modificare il titolo dell’assenza è necessaria un’esplicita richiesta del lavoratore.

Il lavoratore ha diritto a un’indennità giornaliera di malattia, normalmente posta a carico dell’INPS e anticipata dal datore. L’indennità a carico dell’INPS non determina base imponibile ai fini contributivi ma dà diritto alla copertura figurativa ai fini pensionistici, nei limiti temporali fissati dalla legislazione.

Le integrazioni retributive a carico del datore di lavoro e la retribuzione diretta pagata dal datore di lavoro sono da assoggettare interamente alla contribuzione ordinaria, fatto salvo non siano applicabili salari medi o convenzionali oppure sia già stato raggiunto il relativo massimale. I datori di lavoro che corrispondono per legge o per contratto collettivo il trattamento economico di malattia possono essere esonerati dell’INPS a pagare la relativa indennità economica a carico dell’Istituto stesso.

Licenziamento del dipendente malato

La garanzia del posto di lavoro in caso di malattia è finalizzata a consentire al lavoratore di potersi curare in maniera appropriata. Questa tutela assolve anche l’interesse del datore di lavoro alla pronta e rapida guarigione del lavoratore.

Simile interesse può risultare compromesso nel caso in cui il lavoratore, durante il periodo in cui è assente per malattia svolga un’altra attività lavorativa. Tale comportamento può giustificare il recesso del datore di lavoro, in quanto concretizza una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà a meno che non si verifichino determinate condizioni.

Lo svolgimento di altra attività lavorativa non comporta tuttavia l’automatica legittimità del licenziamento: affinché tale comportamento sia rilevante, è necessario che l’attività lavorativa esterna faccia presumere l’inesistenza della malattia, oppure che la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio. In questi casi, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore; tale situazione dimostra, infatti, una fraudolenta simulazione del lavoratore.

In ogni caso, il lavoratore che svolge attività lavorativa retribuita presso terzi durante la malattia perde il diritto all’indennità previdenziale.

L’art. 4, comma 4, della legge n. 69/1999 prevede che l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento dei lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni a causa di tali eventi, qualora gli stessi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori.

Nel caso di destinazione a mansioni inferiori sussiste per tali soggetti il diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

Nel caso di assenze del dipendente dovute a malattie a carattere intermittente o reiterato, ancorché frequenti e discontinue in relazione a uno stato di salute, la Corte di Cassazione (sent. n. 14065 del 1999) ha affermato la licenziabilità del dipendente, anche nell’ipotesi in cui abbia rispettato i limiti del comporto, «quando l’infermità abbia carattere permanente ed implichi pertanto definitiva incapacità fisica, e manchi un interesse… alle future ridotte prestazioni lavorative del dipendente».

In questo caso, infatti, l’infermità del lavoratore, pur non determinando il superamento del periodo di comporto, può essere produttiva di un inadempimento del lavoratore; pertanto non viene preclusa al datore di lavoro la possibilità di procedere al licenziamento per giustificato motivo, in quanto è possibile invocare l’ applicazione dell’art. 1464 c.c. che disciplina l’impossibilità parziale della prestazione.

Secondo tale norma, pur in presenza di una causa di inadempimento non imputabile al debitore (rectius lavoratore), la controparte (rectius datore di lavoro) non è obbligata a mantenere in vita il contratto.


a cura di Roberto Grementieri