Dal 2012 le imprese in crisi possono presentare richiesta di concordato preventivo secondo le norme fallimentari, mentre chi intende presentare ricorso (anche per una causa di lavoro) sperimenta il filtro di ammissibilità in base a quanto previsto per le crisi d’impresa e la giustizia civile dal decreto sviluppo (Dl 22 giugno 2012, n. 83, convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134 pubblica sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 agosto).
Le misure previste dall’articolo 33 sulla “revisione della legge fallimentare per favorire la continuità aziendale“, e quelle previste dagli articoli 54 e 55, che riguardano la giustizia civile, si occupano rispettivamente della necessità di motivare la richiesta di appello (che deve poi essere vagliata e ritenuta ammissibile) e della ragionevole durata del processo, con le modifiche alla Legge Pinto. Vediamo di cosa si tratta.
Diritto fallimentare
In sostanza si permette all’azienda in crisi di accedere immediatamente alle protezioni previste dalla legge fallimentare dopo la domanda di concordato, presentata «unitamente ai bilanci degli ultimi tre esercizi». Per la proposta, il piano e la documentazione c’è tempo da 60 a 120 giorni, su decisione del giudice, che può anche stabilire un’ulteriore proroga fino a 60 giorni, in presenza di giustificati motivi.
In questo modo il debitore, ovvero l’azienda in crisi, accede immediatamente alle protezioni (che di fatto si avvicinano al famoso chapter 11 della legge fallimentare americana) e può compiere atti di ordinaria amministrazione e atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del tribunale.
Ci sono però situazioni in cui la domanda di concordato è inammissibile: per la precisione, quando il debitore, nei due anni precedenti, ha già presentato una domanda di concordato
«alla quale non abbia fatto seguito l’ammissione alla procedura di concordato preventivo o l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti».
Un’altra novità riguarda il fatto che è lo stesso debitore, ovvero l’azienda, a nominare il professionista (indipendente) che deve attestate la fattibilità del piano di risanamento.
Appello civile
La norma contenuta nell’articolo 54 evita che i processi si allunghino con ricorsi non adeguatamente motivati. Di fatto, chi intende ricorrere in appello, deve motivare l’impugnazione inserendovi:
- l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado.
- l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
E’ il giudice di appello che, in udienza, prima di procedere alla trattazione del ricorso nel merito, decide sull’ammissibilità dell’appello. L’eventuale decisione di non ammettere il ricorso in secondo grado, può essere impugnata in Cassazione.
La legge, che non vuole limitare la possibilità di impugnazione di merito di una sentenza, è pensata per bloccare sul nascere i ricorsi che in realtà non sono adeguatamente fondati e che di fatto finiscono per avere l’unico scopo di allungare i tempi del processo.
Ragionevole durata del processo
Con l’articolo 55 del Decreto Sviluppo viene modificata la legge 24 marzo 2001, n. 89 (Legge Pinto). Il processo può durare al massimo (pena indennizzo):
- tre anni in primo grado,
- due anni in secondo grado,
- un anno nel giudizio di legittimità (Cassazione).
Significa che la ragionevole durata del processo è pari a sei anni, che iniziano
«con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione».
Il limite dei sei anni vale anche per il processo penale, che
«si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari».
Se il processo dura oltre i limiti, il giudice deciderà un indennizzo che va da 500 euro a 1500 euro per ciascun anno che supera la ragionevole durata. la legge prevede una serie di cause di non indennizzabilità, ad esempio riconducibili alla condotta non diligente, dilatoria o abusiva della parte.