La legge n.262/2005 ha preso in considerazione la pratica dello “squeeze out” ai danni dei soci di minoranza nelle PMI praticata da quelli di maggioranza, che investono in capitale di rischio per acquisire la gestione dell’impresa stessa. Una prassi visceralmente connessa con gli aspetti più retrivi della Governance societaria condotta dal gruppo di maggioranza. Con tale lemma, si intende quel diritto potestativo – regolato dall’art. 111 del T. U. sull’intermediazione finanziaria (D. Lgs. 58/98) – in virtù del quale chiunque detenga una partecipazione superiore al 98% delle azioni con diritto di voto, a seguito di un’offerta pubblica od OPA totalitaria, ha il diritto di acquistare il flottante residuo ad un prezzo stabilito da un esperto indipendente, nominato dal Presidente del Tribunale del luogo in cui la società target ha sede.
Il tutto, tenuto conto sia del prezzo di mercato negli ultimi sei mesi che di quello dell’offerta. E, ovviamente, sempre che l’acquirente abbia espressamente indicato di volersi avvalere di tale facoltà nel documento dell’offerta precedente, in tal modo facendo acquisire a detta vendita un vero e proprio carattere espropriativo.
Il risultato? La fagocitazione dei soci di minoranza da parte di quelli di maggioranza che, in tal modo, riescono ad espellerli dalla compagine sociale, che all’atto pratico (a parte alcuni riferimenti ad astratte difese derivanti dall’art. 2359 n. 3 e, conseguentemente, dal combinato disposto degli artt.2497 – sexies e 2497 c. c.) non dispongono di sufficienti mezzi per opporsi alle decisioni della maggioranza statutariamente riservate all’Organo Amministrativo, quale longa manus dei soci di maggioranza.
Vengono così relegati al mero ruolo di soci investitori che, sempre in conseguenza di operazioni dirette a svilirne ulteriormente l’esigua posizione, rischiano di vedere sempre più assottigliarsi il margine di guadagno qualora la maggioranza attui un “drop of capital appeal“, ovvero qualora la redditività del capitale di rischio sia abbattuta.
Lo sgretolamento della posizione dei soci di minoranza può essere attuata con due modalità: sviamento del reddito societario a favore degli amministratori o di imprese riconducibili a soci di maggioranza partecipativa; approvazione di delibere a posteriori pregiudizievoli per i soci di minoranza. Nel primo caso, il pregiudizio alla società deriva dal conflitto di interessi che consegue allo sviamento di proventi a favore di terzi in qualche modo collegati alla Governance, con conseguente distrazione degli stessi dalla società vera e propria.
Il legislatore perciò, diversamente da quanto sancito in genere dalla Giurisprudenza, ha valutato rilevante ai fini della validità della delibera tale conflitto, qualora esso conduca ad un effettivo danno, seppure potenziale. Ciò, molto probabilmente, in correlazione con la novella dell’art. 2479 – ter c. c. che non prevede più l’obbligo di astensione del socio in conflitto di interessi e con il consequenziale diritto per quello di minoranza di potere accertare la sussistenza o meno degli estremi di lesione del proprio interesse sociale, cui consegue, nel caso di verifica positiva, l’invalidità della delibera viziata.
Nel secondo caso, invece, il danno al socio minoritario deriva dalla mancata distribuzione dei dividendi o dal sistematico degrado della sua posizione investitrice a quella di minoranza semplice. La criticità di tale operazione deriva dalla discutibilità delle finalità economiche sottese, se analizzate nell’ottica del maggior vantaggio derivante all’impresa.
In effetti, la mancata redistribuzione degli utili in assenza di situazioni contingenti o di previsti futuri aumenti di capitale, così come la repentina decisione di aumentarlo senza concedere il tempo ai soci di minoranza per reperire la liquidità necessaria per farvi fronte, costituiscono entrambe due forme di squeeze out patologiche della delibera, con finalità dichiaratamente discriminatorie in danno alla minoranza.
Mentre la Giurisprudenza UE ha stigmatizzato tale condotta, sanzionandola con la declaratoria di invalidità della delibera mediante la quale è stato realizzato l’abuso, la normativa italiana ha optato per l’adozione di più validi escamotage volti a garantire i diritti del socio vilipeso, ovvero: la sottoscrizione di patti para-sociali che impongono la subordinazione dell’approvazione di determinate decisioni che incidono sulle sorti del socio di minoranza al suo stesso consenso; la previsione di sostanziose penali in caso di violazione dei patti; l’assicurazione del reperimento di un compratore o l’impegno formale di acquisto a un prezzo in linea con gli indici ufficiali delle quote del socio minoritario da parte del socio di maggioranza, qualora l’altro decida di cederle.A livello europeo, per ottimizzare la tutela dei soci minoritari si è optato per la previsione dell’adozione di un Consiglio d’Amministrazione piuttosto che di un amministratore unico, per ovviare alla concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo rappresentante della Governance.
Il nostro ordinamento, invece, ha scelto la via dell’inserimento di patti di riserva a vantaggio dei soci da tutelare all’interno dello stesso statuto, consigliando la presenza di un osservatore fiduciario di questi ultimi che possa esprimere un parere qualificato, devolutivo della decisione all’assemblea nel caso di querelles spinose o controverse.
Non manca una tutela penale che, affiancandosi a quella amministrativa, garantisce una protezione a tutto tondo dei soggetti più vulnerabili delle PMI: previsione della comminazione di una condanna pari ad un periodo variabile da uno a tre anni di reclusione nel caso di omessa comunicazione del conflitto di interessi (art. 2629 – bis c.c.); irrogazione di una condanna detentiva fino ad un anno abbinata ad una multa nelle ipotesi di mendacio bancario, contestata a coloro che forniscono notizie o dati falsi sulla costituzione o situazione economica, patrimoniale o finanziaria delle aziende interessate alla concessione del credito.
Per approfondimenti: legge n.262/2005