Comunemente, con il termine “elettrosmog” si designa il presunto inquinamento elettromagnetico da radiazioni prodotte da emittenti radiofoniche, cavi elettrici percorsi da correnti alternate di forte intensità (come gli elettrodotti della rete di distribuzione), reti per telefonia cellulare, emettitori a bassa potenza e dagli stessi telefoni cellulari. Più in generale da linee e apprati elettrici (50 Hz bassa frequenza) o da impianti di telecomunicazione (alta frequenza)
La particolare attenzione nei confronti di questo tema è dovuta alle numerose campagne di sensibilizzazione promosse da parte di coloro che hanno espresso preoccupazione per la salute dei cittadini e dei lavoratori, spesso creando eccessivi e, a volte ingiustificati, allarmismi. Ed infatti, la valutazione dei potenziali rischi dei campi elettromagnetici è affetta da parecchie incertezze. Diversi studi epidemiologici suggeriscono l’esistenza di deboli correlazioni tra l’esposizione a campi elettromagnetici e patologie nell’uomo.
In particolare, gli studi effettuati in campo medico-scientifico hanno avuto ad oggetto le possibili interazioni tra i campi elettromagnetici ed il cancro. Gli studi riguardano, in particolare, i campi EM a frequenza di rete (50 Hz in Europa, 60 Hz in America), indicati come campi a ELF (Extremely Low Frequency).
Fino agli inizi degli anni ’70 era impensabile che i campi a ELF potessero avere qualche implicazione con lo sviluppo dei tumori. In effetti, i campi elettrici a cui si è esposti, in casa o negli ambienti di lavoro, sono molto deboli (in genere non superano qualche decina di V/m); tuttavia, anche ipotizzando un’esposizione ad un campo elettrico molto intenso (ad esempio un elettrodotto a 380 KV, con altezza minima dal suolo pari a 16 m, produce un campo elettrico di circa 2,5 KV/m ad una distanza di 10 m), il campo elettrico indotto all’interno del corpo viene attenuato di un fattore 108. Si creano, così, campi elettrici interni al corpo che non sono più grandi del campo elettrico generato da alcune cellule. Anche i campi magnetici cui generalmente si è esposti, sono molto deboli; ad esempio il campo magnetico generato da una linea aerea ad alta tensione o da un terminale video è normalmente di pochi decimi di µT (circa l’1% del campo magnetico terrestre). Valori così piccoli hanno indotto gli scienziati a ritenere sicuri i campi a ELF.
I successivi ripensamenti in ordine alle considerazioni appena esposte sono derivati da una serie di studi epidemiologici effettuati negli ultimi decenni. A causa dell’uso esteso dell’energia elettrica, si è soggetti all’esposizione ai campi a ELF praticamente in ogni luogo (lavoro, casa, scuola, etc.), per cui la ricerca epidemiologica, invece che studiare esposizioni occasionali a campi a ELF, come aveva fatto in precedenza, si è incentrata soprattutto su possibili effetti dovuti ad esposizioni prolungate.
Sono state definite due categorie generiche di esposizione:
- “Esposizione residenziale”: i livelli tipici riscontrati nelle abitazioni sono determinati dai cavi che portano l’elettricità alla casa stessa e dall’utilizzo di apparecchiature elettriche, in particolare quelle che vengono usate a distanza ravvicinata dalle persone e per estesi periodi di tempo.
- “Esposizione occupazionale”: i livelli rilevati sul luogo di lavoro dovuti alla vicinanza di apparecchi elettrici, come trasformatori, fotocopiatrici, grossi motori elettrici, etc.
Mentre – ad eccezione dei sistemi peridiagnostica e terapia medica – i livelli di esposizione umana dovuti ad apparati a frequenza intermedia sono normalmente al di sotto dei limiti raccomandati dall’ICNIRP, alcune categorie di lavoratori (ad es. addetti alla saldatura a riscaldamento dielettrico o a riscaldatori ad induzione, alcuni militari e tecnici che lavorano presso sistemi di trasmissione ad alta potenza) può essere esposto a livelli di campo notevolmente più alti.
In tal senso, sono state compiute delle ricerche finalizzate a rilevare una possibile correlazione tra l’esposizione ai campi elettromagnetici sul luogo di lavoro e l’insorgenza di tumori. Questi studi, c.d. “studi occupazionali”, non pongono alcuna distinzione tra l’esposizione a campi magnetici e a campi elettrici, visto che le sorgenti radianti (apparati elettrici) producono entrambi i tipi di campo e non è presente alcun tipo di schermatura efficace (al contrario di quanto visto negli studi residenziali). Questo filone di studi afferma l’esistenza di un accresciuto rischio di tumore (in particolare leucemia e tumori al cervello) per gli addetti alla produzione e distribuzione di energia elettrica e per le altre categorie professionali esposte ai campi a ELF.
Stante ciò, di fronte all’incertezza scientifica si è preferito adottare, a livello legislativo, un “approccio cautelativo” nella gestione dei rischi sanitari. Pertanto, nella dichiarazione firmata a Londra durante la “Terza Conferenza Ministeriale su Ambiente e Salute” nel 1999, l’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata incoraggiata a tenere in considerazione “la necessità di applicare rigorosamente il principio di precauzione nella valutazione dei rischi e di adottare maggiori iniziative ed un approccio più preventivo nei confronti di potenziali danni alla salute”.
Sulla scia di tale raccomandazione, il legislatore europeo ha approvato, il 2 febbraio 2000, un importante comunicato sul principio di precauzione, fornendo linee guida per la sua applicazione. In base a tale comunicato, i provvedimenti fondati sul principio di precauzione dovrebbero essere:
- adattati ai livelli di protezione scelti
- non discriminatori nella loro applicazione
- confrontabili nella loro portata e nella loro natura con provvedimenti già presi in aree equivalenti nelle quali sono disponibili tutti i dati scientifici
- basati su di un esame dei potenziali benefici e costi di azioni fatte o mancate (inclusa, laddove appropriata e fattibile, un’analisi economica dei costi/benefici),
- di natura provvisoria, cioè suscettibili di revisione alla luce dei nuovi dati scientifici,
- in grado di assegnare la responsabilità della produzione delle prove scientifiche necessarie per una più completa valutazione dei rischi
Sulla base di tali criteri “precauzionali”, sono nate le cosiddette normative di “terza generazione”, basate su precise regole del procedere ed ispirate al paradigma “anticipativo”.
A livello nazionale, portavoce di questa nuova corrente normativa è stata la legge n. 36 del 22 febbraio 2001 – c.d. “legge quadro sull’elettrosmog”. Le novità più importanti introdotte dal testo normativo (che applica il principio di precauzione ai con una notevole pregnanza cogente) sono stati la riduzione dei tempi previsti per il risanamento degli impianti esistenti (tali tempi sono stati accorciati da tre a due anni per gli impianti radioelettrici ed elettronici, da dodici a dieci anni per gli elettrodotti) e la scomparsa dei diversi limiti di inquinamento in funzione della zona, in modo da rendere la protezione dall’elettosmog uguale su tutto il territorio nazionale.
In attuazione della legge quadro sono stati emanati due DPCM, entrambi datati 8 luglio 2003 (ulteriormente modificati negli anni successivi, per adeguarsi all’evoluzione della normativa europea), che hanno fissato i limiti di campo elettromagnetico emesso dagli elettrodotti e dagli impianti ad alta frequenza (stazioni di telefonia mobile, radio e televisive). Per gli elettrodotti il valore di attenzione è stato fissato a 10 microtesla, un limite dieci volte inferiore di quello adottato dai paesi Ue ed attualmente in vigore anche in Italia.
I decreti hanno inoltre fissato i c.d. “obiettivi di qualità” e per gli elettrodotti l’obiettivo è di 3 microtesla. Questo obiettivo deve essere rispettato (entro l’anno 2012) nella progettazione di nuovi elettrodotti. Per quelli già esistenti tale limite deve essere raggiunto nei tempi e nei modi stabiliti nei piani di risanamento, prevedendo tra le priorità le aree gioco per l’infanzia e cominciando ad intervenire nelle situazioni caratterizzate dai maggiori livelli di esposizione.
Ma, tornando ai rischi che corrono i lavoratori soggetti ad esposizioni prolungate ai campi elettromagnetici, è a livello europeo che sono stati presi i più importanti provvedimenti.
Parliamo della nuova direttiva europea 2004/40/CE, sulla protezione dei lavoratori dalle esposizioni ai campi elettromagnetici. La direttiva, che non riguarda gli effetti a lungo termine, inclusi eventuali effetti cancerogeni, per cui mancano dati scientifici che comprovino un nesso di causalità, stabilisce delle regole base, lasciando agli Stati membri la facoltà di mantenere o di adottare disposizioni più favorevoli per la protezione dei lavoratori.
La direttiva stabilisce prescrizioni minime di protezione dei lavoratori contro i rischi per la loro salute e la loro sicurezza che derivano, o possono derivare, dall’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali durante il lavoro. Essa riguarda, in particolare, i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori dovuti agli effetti nocivi sugli occhi e sulla cute derivanti dall’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali e prevede delle misure volte a garantire i diritti dei lavoratori all’informazione, alla formazione, alla consultazione e a dei controlli sanitari. L’insieme delle disposizioni mira a creare per tutti i lavoratori della Comunità una piattaforma minima di protezione che eviti possibili distorsioni di concorrenza.
Ma la più importante novità introdotta dal testo normativo in oggetto è la previsione, per la prima volta, di veri e propri obblighi a carico dei datori di lavoro, che sono considerati diretti responsabili della corretta applicazione delle regole ivi stabilite. Prevede, a tal proposito, l’articolo 4, che il datore di lavoro deve valutare e, se necessario, misurare e/o calcolare i livelli di campo elettromagnetico a cui i lavoratori sono esposti. In occasione di queste valutazioni, che dovranno essere realizzate a intervalli «idonei», dovrà essere prestata particolare attenzione al livello, alla gamma di lunghezze d’onda e alla durata dell’esposizione a sorgenti artificiali di radiazioni ottiche e ai valori limite di esposizione. Ma anche a qualsiasi effetto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori appartenenti a gruppi a rischio particolarmente esposti, nonché a qualsiasi eventuale effetto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori risultante dalle interazioni sul posto di lavoro tra le radiazioni ottiche e le sostanze chimiche fotosensibilizzanti e a qualsiasi effetto indiretto come l’accecamento temporaneo, le esplosioni o il fuoco.
Dovrà, inoltre, tenersi conto dell’esistenza di attrezzature di lavoro alternative progettate per ridurre i livelli di esposizione alle radiazioni ottiche artificiali e, per quanto possibile, delle informazioni adeguate raccolte nel corso della sorveglianza sanitaria.
Il datore di lavoro dovrà, inoltre, prendere in considerazione anche la possibilità di rischi indiretti per la salute: innesco di dispositivi elettro-esplosivi (detonatori); incendi ed esplosioni dovuti all’accensione di materiali infiammabili provocata da scintille prodotte da campi indotti, correnti di contatto o scariche elettriche; interferenza con attrezzature e dispositivi medici elettronici (compresi stimolatori cardiaci e altri dispositivi impiantati); rischio propulsivo di oggetti ferromagnetici per campi magnetici statici con induzione magnetica superiore a tre metri.
Quanto alla sorveglianza sanitaria, in assenza di previsioni esplicite, si ritiene sussistere un implicito rinvio a quanto previsto dall’articolo 14 della direttiva 89/391/CEE, per cui in caso di esposizione superiore ai valori limite, i lavoratori interessati devono potersi sottoporre ad un controllo medico, in conformità del diritto e della prassi nazionale.
Saranno gli Stati membri a stabilire quali sanzioni applicare in caso di violazione della normativa in oggetto; sanzioni che dovranno essere “effettive, proporzionate e dissuasive”.