La Corte di Cassazione (sentenza n. 22150 del 29 ottobre 2015) ha analizzato il rapporto tra i poteri del giudice e la possibilità di modificare le sanzioni disciplinari: in caso di impugnazione, se da un lato può definire valido o meno un provvedimento, dall’altro lato non ha voce in capitolo sui criteri stabiliti dal datore di lavoro.
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Poteri del giudice
La vicenda prende le mosse da una sentenza depositata il 23 giugno 2009, con cui la Corte d’Appello di Brescia confermava il precedente rigetto della domanda di Poste Italiane S.p.A. relativa all’accertamento della legittimità della sanzione disciplinare irrogata a un proprio dipendente (4 giorni di sospensione dal lavoro, ritenuta una pena troppo aspra e senza possibilità di essere sostituita con altra meno severa).
Poteri del datore di lavoro
I giudici hanno respinto il ricorso, poiché stando all’orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 15932/04) il potere di infliggere sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità all’illecito accertato non può essere esercitato dal giudice, allo stesso modo per la riduzione della gravità della sanzione. Invero, la graduazione della sanzione in relazione alla gravità dell’illecito disciplinare è espressione di una discrezionalità che rientra nel più ampio potere organizzativo quale aspetto del diritto di iniziativa economica privata che l’art. 41 cc. 1° Cost. riconosce all’imprenditore.
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Conclusioni
I criteri di scelta da lui adottati nell’esercizio del potere disciplinare non sono sindacabili nel merito dal giudice, che deve limitarsi a verificare – oltre all’esistenza in punto di fatto dell’addebito – il rispetto delle disposizioni legislative e contrattuali in materia e, in particolare, del principio inderogabile di cui all’art. 2106 c.c., secondo cui le sanzioni disciplinari devono essere proporzionate alla gravità dell’infrazione. Solo la loro violazione comporta l’illegittimità della sanzione disciplinare, senza che al giudice sia dato il potere di sostituirsi all’imprenditore.