Il lavoratore che ha dei crediti nei confronti del datore di lavoro legati alla retribuzione, può fare valere i propri diritti all’interno dei limiti previsti dal codice civile, in base al quale la prescrizione dei crediti di lavoro scatta entro cinque anni, che diventano dieci nel caso in cui la richiesta abbia natura risarcitoria: il Jobs Act, e in particolare l’introduzione del rapporto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ha fatto sorgere una serie di dubbi interpretativi sull’applicazione di queste norme.
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Il punto è il seguente: per chi è tutelato dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il termine di prescrizione si calcola dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (articolo 2935 del codice civile). In base a diverse sentenze della Corte Costituzionale (il principale termine di riferimento è la sentenza 63/1966), per i lavoratori che invece non hanno la cosidetta “tutela reale” dell’articolo 18 (ad esempio, i lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti), il termine non si può far partire in costanza di rapporto di lavoro, ma solo dopo l’estinzione dello stesso, perché il timore del licenziamento può legittimamente spingere il lavoratore a rinunciare ai propri diritti.
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E qui si inserisce il discorso relativo al Jobs Act: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti limita il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, escludendolo in tutti i casi di licenziamento economico, e in alcuni casi di licenziamento disciplinare. Il risultato, potrebbe essere una diversa applicazione dei termini di prescrizione crediti di lavoro a tutti coloro ai quali viene applicato il contratto a tutele crescenti. La risposta non è semplice, trattasi di normative nuove sulle quali si attendono orientamenti giurisprudenziali precisi.
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Nel frattempo, ricordiamo esattamente cosa prevedono le norme sulla prescrizione. I diritti relativi alle normali voci contrattuali (stipendio, TFR), vanno rivendicati nell’arco di cinque anni. Lo prevede l’articolo 2948 del codice civile, che stabilisce un termine di prescrizione di cinque anni per tutte le somme che vanno pagate peridicamente ad anno o in termini più brevi, e per le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro (quindi appunto, liquidazione, indennità di preavviso).
Nei casi in cui la richiesta abbia natura risarcitoria, e non riguardi semplicemente un mancato pagamento, ma la rivendicazione di un diritto, il termine di prescrizione è quello ordinario, quindi dieci anni. Esempi: ferie e riposi settimanali non goduti, mancato pagamento dei contributi, erogazioni una tantum, accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro.
Esiste infine il caso di prescrizione presuntiva, che scatta entro un anno per le retribuzioni pagate con cadenza non superiore al mese, e entro tre anni per quelle con cadenza superiore al mese (articoli 2955 e 2956 del codice civile). Le retribuzioni con cadenza non superiore al mese sono per esempio eventuali errori in busta paga, mentre quelle con cadenza superiore sono la tredicesima o la quattordicesima mensilità, premi annuali, festività, altre retribuzioni aggiuntive.