Con la sentenza n. 12242 del 12 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha chiarito il rapporto tra il riassetto organizzativo dell’impresa e il licenziamento per giustificato motivo del dipendente, oltre al nesso di causalità tra le due cose: nel caso esaminato, è risultato che nessun fondamento obiettivo, neppure di ordine economico, è stato prospettato al fine di giustificare l’operazione di riassetto che ha comportato la “perdita del posto di lavoro”, sicché non può ritenersi sussistente il giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
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Il caso riguardava il ricorso di una lavoratrice addetta al banco vendita di una panetteria, assunta da una s.n.c. con le mansioni di commessa di quarto livello, attraverso un contratto di apprendistato della durata di 48 mesi, contro il licenziamento per giustificato motivo per la soppressione del posto di lavoro derivante dall’ingresso di nuovi soci. La donna aveva impugnato il licenziamento perché, secondo la sua versione, il datore di lavoro non avrebbe potuto recedere dal contratto di apprendistato per giustificato motivo oggettivo. Di conseguenza chiedeva che fosse dichiarato illegittimo il licenziamento e la conseguente corresponsione delle mensilità dovute fino alla scadenza del contratto.
Il Tribunale aveva accolto la domanda e la Corte d’appello di Torino, con la sentenza n. 1368 del 2011, aveva rigettato l’appello proposto dal datore di lavoro ma, in dissenso dal primo Giudice, aveva rilevato che il recesso dal rapporto di apprendistato poteva avvenire anche per giustificato motivo oggettivo. Riteneva tuttavia che, nel caso specifico, tale giustificato motivo oggettivo di licenziamento non sussistesse, poiché i due soggetti entrati nella compagine sociale a metà febbraio 2008, indipendentemente dal fatto che essi fossero nuovi soci o meno, erano stati impiegati per svolgere le medesime mansioni già svolte dalla dipendente, di conseguenza era palese che l’asserita soppressione del posto e quindi l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento non fosse sostenibile.
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La s.n.c. quindi ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando che la motivazione della Corte d’appello sarebbe stata contraddittoria poiché, dopo avere dato per buono che le persone entrate in società fossero dei nuovi soci, contraddittoriamente poi avrebbe posto in dubbio tale qualità, suffragata da specifiche prove testimoniali. L’ingresso di tali soci lavoratori aveva comunque determinato la soppressione del posto di lavoro in oggetto, sicché sussisteva il giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento, considerato che la riorganizzazione del lavoro era stata attuata attraverso la sostituzione del lavoro prestato dalla dipendente licenziata con quello fornito personalmente dai nuovi soci lavoratori.
La Cassazione ha respinto il ricorso, poiché il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., al contrario al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore. Di conseguenza non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (come già la Corte aveva sostenuto: Cass. n. 25874 del 2014, Cass. n. 24235 del 30/11/2010; Cass. n. 21282 del 02/10/2006).
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È posto però a carico del datore di lavoro l’onere di dedurre e dimostrare l’effettiva sussistenza del motivo addotto e quindi, nell’ipotesi di licenziamento riconducibile a un riassetto organizzativo dell’impresa, delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto, oltre che del relativo processo e del nesso di causalità con il licenziamento. L’operazione di riassetto costituisce infatti la conclusione del processo organizzativo, ma non la ragione dello stesso, che, per imporsi sull’esigenza di stabilità, dev’essere seria, oggettiva e non convenientemente eludibile (Cass. n. 7474 del 14/05/2012, Cass. n. 15157 del 11/07/2011). In proposito, si è affermato che il riassetto organizzativo dell’azienda può essere posto in essere anche al fine di una più economica gestione dell’impresa, finalizzata a far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva (Cass. n. 2874 del 2012), ma ciò purché di tali presupposti si dia adeguatamente conto in giudizio.
Nel caso analizzato, le ragioni che hanno determinato l’operazione di riassetto, come rilevato dalla Corte territoriale nella sentenza poi impugnata, non sono state né provate né indicate dalla società. Tant’è che nella lettera di licenziamento si affermava che l’interruzione del rapporto di lavoro con la lavoratrice veniva disposto “a causa della soppressione del posto di lavoro assegnatole in seguito all’ingresso in società di una nuova socia”; in giudizio la società si è limitata a riferire e dedurre a prova che nella società erano subentrati nel marzo 2008 (stessa data del licenziamento) due nuovi soci lavoratori che erano andati a svolgere le medesime mansioni della lavoratrice, sicché il suo posto di lavoro era stato soppresso senza assunzione di personale in sostituzione.