Certificati medici falsi: licenziamento illegittimo e reintegra

di DLA Piper Italia

Pubblicato 4 Settembre 2024
Aggiornato 5 Settembre 2024 11:21

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Il falso certificato di malattia dipendente non legittima il licenziamento per giusta causa del lavoratore del dipendente: nuova sentenza di Cassazione.

L’utilizzo di certificati medici falsi giustificativi del periodo di malattia da parte di un dipendente non è un fatto idoneo ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa di quest’ultimo.

In merito, si è pronunciata la Corte di Cassazione la quale, con l’ordinanza in commento (n. 20891 del 26 luglio 2024), richiamando un orientamento giurisprudenziale consolidato, ha confermato: “è stato chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte che, in tema di licenziamento individuale per giusta causa, l’insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della legge n. 92 del 2012, comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità (anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo); ed è stato precisato che la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st. lav. novellato, applicabile ove sia ravvisata l'”insussistenza del fatto contestato”, comprende l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità“.

Vediamo il perché.

Licenziamento illegittimo anche con certificato medico falso

La presente pronuncia vede sullo sfondo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente a seguito di una contestazione disciplinare che addebitava al medesimo dipendente per aver utilizzato certificati medici falsi quali giustificativi del periodo di malattia.

Precisamente, la condotta addebitata al dipendente è quella di “aver violato i principi fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, per aver presentato certificazioni mediche false a giustificazione di giornate di assenza a causa della malattia del figlio (vicenda coinvolgente altri lavoratori e uno studio medico, dalla quale è originato un procedimento penale)“.

Al dipendente non è stato imputato “di aver falsificato o contribuito a falsificare i certificati in questione“.

A fronte di quanto sopra, il licenziamento per giusta causa è stato dichiarato illegittimo sia in primo che in secondo grado di giudizio.

In proposito, la Corte d’Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede con la quale è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento ed ordinata la reintegra nel posto di lavoro oltre che condannata la società al pagamento di indennità risarcitoria pari agli importi dovuti dal giorno della sospensione dalla paga e dal servizio sino all’effettiva reintegra.

A parer della Corte di merito, “la prova della consapevolezza da parte del lavoratore della non autenticità della documentazione al fine di farne uso traendone un indebito vantaggio, così da compromettere il vincolo fiduciario, non era emersa in giudizio e non poteva essere oggetto di presunzione per il solo fatto che il lavoratore avesse utilizzato i certificati“.

Ne è derivata una valutazione sulla condotta del dipendente come priva del carattere di illiceità sotto il profilo soggettivo, “per mancanza di coscienza e volontà riguardo all’antigiuridicità della propria condotta“.

La società ha dunque deciso di proporre ricorso per Cassazione, cui ha resistito il lavoratore.

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L’ordinanza della Corte di Cassazione

A parer della Corte di Cassazione, il ricorso è infondato. Preliminarmente, sull’onere della prova, la Corte di Cassazione ha affermato che nella materia in oggetto (licenziamento) opera la regola generale di cui all’art. 5, legge n. 604/1966, che pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento.

In merito, a parer dei Giudici di legittimità, “la Corte d’Appello ha compiuto una valutazione complessiva delle prove proposte dalle parti, ed ha ritenuto non provata la sussistenza dell’elemento soggettivo del fatto illecito contestato, pur materialmente accertato (ossia la consapevolezza della falsità dei certificati medici utilizzati, posto che il fatto materiale della falsificazione non era addebitato al lavoratore)“.

In tal senso, i giudici di merito hanno compiuto un’operazione di valutazione delle prove raccolte, in esito alla quale non è stata, nel merito, inferita la consapevolezza dell’uso di certificato falso in capo al lavoratore.

A fronte di quanto sopra, con un motivo di ricorso, la società ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300/1970, per non essere stata applicata l’indennità risarcitoria nei minimi di legge in luogo della reintegra.

A parer dei Giudici di Cassazione, il motivo è infondato.

Infatti, come anticipato in premessa , (ormai) costante giurisprudenza di Cassazione ha affermato che, in tema di licenziamento individuale per giusta causa, l’insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria comprende anche le ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità (anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo).

Su questo specifico punto, giova richiamare un precedente giurisprudenziale (Cass. n. 4316/2023) ove si è affermato che “la tutela reintegratoria, ai sensi della L. n. 300 del 1970 novellato, articolo 18, comma 4, applicabile ove sia ravvisata l’insussistenza del fatto contestato comprende, infatti, l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di sussistenza materiale del fatto, ma privo del carattere di illiceità.

A parer dei Giudici, invece, esula dalla suddetta tutela (reintegratoria) “la mancanza degli elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo (il c.d. “fatto giuridico“), in quanto, nel sistema della L. n. 92 del 2012, il giudice deve in primo luogo accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso e, nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, poi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle condizioni normativamente previste per l’accesso alla tutela reintegratoria“.


Articolo di: avvocato Davide Maria Testa, esperto in Diritto del lavoro, Relazioni industriali e Riorganizzazioni aziendali presso DLA Piper