di Alessandra Giorgi, Avvocato DLA Piper
Con Ordinanza n. 29101/2023, pubblicata il 19 ottobre 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità del risarcimento del danno nei confronti di un lavoratore sottoposto a condizioni di lavoro stressogene (straining).
Nel caso di specie, si chiedeva anche il risarcimento di tutti i danni, contrattuali ed extracontrattuali, per asserito mobbing da parte della superiore gerarchica (ravvisabile, ad avviso del lavoratore, nei seguenti singoli fatti: demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità).
Ambiente di lavoro stressogeno e risarcimento danni
In parziale riforma della sentenza di primo grado, se da una parte la Corte d’Appello di Roma ha riconosciuto il diritto del lavoratore al superiore inquadramento (con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive), dall’altra ha negato la fondatezza della domanda di risarcimento del danno per mobbing promossa dal lavoratore.
Nello specifico, la Corte territoriale ha appurato che la superiore gerarchica del lavoratore manteneva con tutti i dipendenti rapporti stressogeni, riconoscendo altresì che con il lavoratore in questione tali rapporti sfociavano in una “stressante modalità di controllo”, fino al punto di causare a quest’ultimo un attacco ischemico durante una discussione tra i due.
Tuttavia, pur avendo accertato la sussistenza di una condotta stressogena nei confronti del lavoratore, i giudici del gravame hanno ritenuto non provata la reiterazione di tale condotta riferita ai singoli fatti mobbizzanti.
Pertanto la Corte d’Appello ha negato l’illiceità della condotta tenuta dalla superiore del lavoratore, ritenendo che la stessa integrasse un episodio isolato che esulava dalla sistematicità di una condotta persecutoria o discriminatoria reiterata nel tempo, respingendo di conseguenza qualsivoglia tutela risarcitoria in relazione alla domanda svolta dal lavoratore.
Obblighi si sicurezza e salute nei luoghi di lavoro
Prima di proseguire con l’analisi della vicenda in esame, occorre richiamare sinteticamente l’art. 2087 c.c., rubricato “Tutela delle condizioni di lavoro”, secondo cui:
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Tale norma, in stretta connessione con il diritto alla salute sancito dalla Costituzione, nonché con i principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, introduce un dovere per il datore di lavoro, che trova fonte immediata e diretta nel contratto di lavoro subordinato.
Pertanto, qualora l’inosservanza dell’obbligo di sicurezza provochi un danno in capo al dipendente, quest’ultimo ha diritto di proporre un’azione risarcitoria, anche contrattuale.
Mobbing e straining come violazioni dell’obbligo di sicurezza
Il nodo della questione è dunque l’esistenza (o meno) di una violazione dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. e la conseguente sussistenza (o meno) di un diritto al risarcimento del danno in capo al lavoratore.
È pacifico in giurisprudenza il principio per cui la fattispecie del c.d. mobbing – intesa come condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nell’attuazione di una pluralità di atti diretti (in attuazione di un disegno persecutorio unificante: Cass. n. 10992/2020) alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa la sfera professionale o personale – debba essere qualificata come violazione dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.
Parimenti, secondo la giurisprudenza, anche lo straining, ossia l’adozione di condizioni di lavoro stressogene, pur distinguendosi dal mobbing perché privo del carattere della continuità, costituisce ugualmente una violazione dell’art. 2087 c.c.
Muovendo da questi principi, con la recente ordinanza n. 29101/2023 la Corte di Cassazione ha richiamato l’ordinamento risalente sopra descritto (cfr. sent. 3291/2016) secondo cui:
al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica).
Secondo la Suprema Corte, la reiterazione o l’intensità del dolo incidono eventualmente sul quantum del risarcimento, ma nessuna offesa a interessi del lavoratore protetti dalla Costituzione può rimanere senza la minima reazione quale potrebbe essere, ad esempio, il risarcimento del danno.
La decisione della Corte di Cassazione
I giudici di legittimità hanno dunque ribadito il principio già consolidato dalla Suprema Corte (cfr. sent. n. 18164/2018, n. 3977/2018 n. 7844/2018, n. 12164/2028, n. 12437/2018, n. 4222/2016) secondo cui
lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’art. 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta.
Nello specifico, la Corte di Cassazione ha riconosciuto valore dirimente all’“ambiente lavorativo stressogeno”, ritenendolo un fatto ingiusto, suscettibile di condurre al riesame anche delle altre condotte datoriali vessatorie, seppur apparentemente lecite o solo episodiche, per una tutela dei diritti del lavoratore.
In conclusione, la Suprema Corte ha accolto con rinvio il ricorso promosso dal lavoratore, rimandando la causa alla Corte d’Appello di Roma per un nuovo esame alla luce dei principi di diritto evocati.