Dal Quirinale, arriva quella che senza particolari forzature si può definire una bacchettata in piena regola del presidente della Repubblica al Parlamento: il presidente Sergio Mattarella ha firmato la legge di conversione del Milleproroghe senza rimandarla alle Camere, ma ha espresso riserve. In particolare sul provvedimento di rinnovo delle concessione balneari. E in generale sulla consuetudine del Legislatore di inserire in provvedimenti omnibus misure disomogenee fra loro senza che ci sia reale urgenza per scadenza dei termini.
Le considerazioni sono contenute in una lettera inviata alla presidenza del Consiglio e ai presidenti delle Camere.
Le criticità del Milleproroghe
Mattarella, è bene sottolinearlo, ha comunque promulgato la legge di conversione del Milleproroghe. Quindi, tutte le norme inserite entrano in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ma certo non lo ha fatto con convinzione. Anzi, ha evidenziato «molteplici profili critici», che «potrebbero giustificare l’esercizio della facoltà attribuita dall’articolo 74 della Costituzione». In base al quale:
Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.
Mattarella, quindi, avrebbe potuto rimandare la legge in Parlamento per un ulteriore passaggio. Ma non lo ha fatto «consapevole della delicatezza, sotto il profilo costituzionale, del rinvio alle Camere esercitato nei confronti di una legge di conversione di un decreto-legge, a pochi giorni dalla sua scadenza».
La mancata approvazione della legge di conversione avrebbe fatto decadere il provvedimento, facendo «venir meno, con effetti retroattivi, in molti casi in maniera irreversibile, tutte le numerose altre disposizioni che il decreto-legge contiene, determinando incertezza e disorientamento nelle pubbliche amministrazioni e nei destinatari delle norme».
Il Capo dello Stato però preso carta e penna per segnalare una serie di rilievi, anche di carattere costituzionale.
I rilievi del Presidente della Repubblica
Il punto maggiormente critico della legge è quello relativo alla proroga delle concessioni balneari. Il termine, scrive il presidente della Repubblica, «viene differito dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024», e c’è anche la proroga del termine «entro il quale l’autorità competente può posticipare ulteriormente l’efficacia delle concessioni e dei rapporti in essere con atto motivato da ragioni oggettive», dal 31 dicembre 2024 al 31 dicembre 2025.
Inoltre «le concessioni e i rapporti in essere continuano in ogni caso ad avere efficacia sino alla data di rilascio dei nuovi provvedimenti concessori», mentre «fino all’adozione dei decreti legislativi attuativi della delega in materia di affidamento delle concessioni (in scadenza il 27 febbraio prossimo) è fatto comunque divieto agli enti concedenti di procedere all’emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni.
Con l’effetto – sottolinea il Quirinale – di creare ulteriore incertezza considerato che la delega in questione verrà meno fra tre giorni». Infine, «ai titolari di concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali viene consentito il mantenimento dei manufatti amovibili fino al 31 dicembre 2023, con possibili casi di interferenza anche con provvedimenti giudiziari di demolizione in corso».
Il problema è che la materia «è da tempo all’attenzione della Corte di Giustizia Europea che ha ritenuto incompatibile con il diritto europeo la proroga delle concessioni demaniali marittime disposta per legge, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati». In base a questo rilievo, era stato deciso (legge 118/2022), di prorogare le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per l’esercizio delle attività turistico-ricreative e sportive fino al 31 dicembre 2023, con la possibilità, a fronte di ragioni oggettive che impedissero la conclusione della procedura selettiva entro il 31 dicembre 2023, di ulteriore proroga al 31 dicembre 2024, con provvedimento motivato dall’attività competente.
Invece, il Parlamento è intervenuto modificando «in misura rilevante» il quadro normativo. Con disposizioni che, per le ragioni sopra esposte, «oltre a contrastare con le ricordate definitive sentenze del Consiglio di Stato, sono difformi dal diritto dell’Unione europea, anche in considerazione degli impegni in termini di apertura al mercato assunti dall’Italia nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».
Non solo. Il provvedimento, rischia di generare incertezze interpretative e ricorsi infiniti. Perché una pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato «ha ritenuto “senza effetto perché in contrasto con l’ordinamento dell’unione europea” “qualsiasi ulteriore eventuale proroga che dovesse nel frattempo intervenire». Quindi, «gli enti concedenti potrebbero ritenersi comunque legittimati a disapplicare le norme in contrasto con il diritto europeo e a indire le gare, mentre i controinteressati potrebbero essere indotti ad impugnare eventuali provvedimenti di proroga delle concessioni, alimentando ulteriormente il contenzioso».
Insomma, la proroga delle concessioni è, a dir poco, un pasticcio. E rientra in un generale quadro in cui «nel corso dell’esame parlamentare dei decreti-legge emerge assai di frequente la tendenza a soddisfare esigenze normative eterogenee rispetto al contenuto originario dei singoli provvedimenti».
Questo, viola il requisito dell’omogeneità di contenuto che la Corte costituzionale ha, in più occasioni, ritenuto oggetto di tutela costituzionale. Esempio: la sentenza 245 del dicembre scorso della Consulta, proprio con riferimento ad un decreto-legge “proroga termini”, ha dichiarato «illegittima una norma in materia tributaria in quanto del tutto estranea al contenuto e alla finalità del decreto-legge originario e considerando del tutto irrilevante il fatto che nel preambolo del decreto-legge vi fosse un riferimento alla straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di adottare misure in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie».
La semplice evocazione della materia tributaria nell’epigrafe e/o nel preambolo di una legge, sottolinea ancora la Corte Costituzionale, non può avere la conseguenza paradossale di «diventare lo strumento per vanificare i limiti costituzionali all’emendabilità del decreto-legge in sede di conversione; ciò a detrimento delle ordinarie dinamiche del confronto parlamentare, così prefigurando un procedimento legislativo alternativo a quello ordinario, anche mediante il ricorso al maxiemendamento e alla questione di fiducia».
La legge di conversione del Milleproroghe contiene tutti gli elementi di criticità appena esposti.
«Il testo del decreto-legge contiene, in seguito all’esame parlamentare, 205 commi aggiuntivi rispetto ai 149 originari», rileva Mattarella. Le norme sulle concessioni demaniali, come detto, contengono ulteriori profili problematici. Ma in generale il provvedimento ricalca una prassi che evidentemente il Capo dello Stato critica profondamente. Questo non significa che non si possano approvare decreti Milleproroghe. Anzi, la stessa Consulta (sentenza 22/2012), spiega che questi decreti, che ormai tutti gli anni vengono approvati, «sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti – pur attinenti ad oggetti e materie diversi – che richiedono interventi regolatori di natura temporale».
Ma, nel caso specifico, Mattarella riscontra «la presenza di norme che non recano proroghe di termini in senso stretto ma provvedono a introdurre o a modificare la disciplina sostanziale a regime in diverse materie, ovvero risultano funzionali a disporre un mero finanziamento ovvero un rifinanziamento di misure già scadute. Numerose risultano, in particolare, le norme prive di riferimenti di carattere temporale in materia di personale e di organizzazione della pubblica amministrazione, o, ancora, di carattere ordinamentale o anche con oneri per le finanze pubbliche».