Ancora una volta il Garante Privacy è intervenuto a sanzionare imprese che non hanno correttamente gestito ed utilizzato i dati dei propri dipendenti. La rilevanza dell’intervento non va tanto individuata nell’azione posta in essere dal Nucleo privacy della Guardia di Finanza, né tanto meno nella sanzione irrogata all’azienda, quanto piuttosto alla considerazione che, ancora oggi, non si tenga in debito conto l’essenziale connessione tra gli aspetti del controllo dei dipendenti da una parte, e l’adozione di un adeguato sistema di protezione dei dati dall’altra.
Il sistema di gestione privacy con l’obiettivo della salvaguardia dei diritti fondamentali assume, non dimentichiamolo, una doppia valenza per le imprese: sicurezza informativa e sviluppo digitale; corretta gestione dei dati nelle dinamiche del diritto del lavoro. E’ proprio in questa ottica che l’adozione di un modello adeguato di protezione dei dati si inserisce perfettamente nell’ambito della responsabilità sociale di impresa. Questo perché etica, sostenibilità e responsabilità sono i pilastri non solo del GDPR ma anche di quelle imprese che guardano al futuro ed a un mondo del lavoro che sta cambiando (smart working, in primis). È proprio in questa ottica che va guardata la vicenda che ha visto intervenire il Garante.
Il caso
Ai fini di un procedimento disciplinare contro un lavoratore, in un caso dei mesi scorsi che ha fatto scalpore per l’entità della sanzione comminata (40mila euro), la società aveva utilizzato informazioni recuperate dal proprio sistema informatico violando i limiti di conservazione e registrazione stabiliti dall’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro. Come ha ricordato il Garante:
in base alla vigente disciplina di settore i trattamenti di dati personali possono essere effettuati mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici qualora questi ultimi siano impiegati “esclusivamente” per il perseguimento in concreto di finalità predeterminate (per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale), così come individuate nell’autorizzazione rilasciata dall’autorità pubblica (in mancanza di accordo con le rappresentanze dei dipendenti; v. art. 4, l. 20.5.1970, n. 300).
La norma di settore, richiamata espressamente dalla disciplina in materia di protezione dei dati personali, costituisce una delle norme del diritto nazionale “più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro” individuate dall’art. 88 del Regolamento. È evidente, quindi, che proprio nella prospettiva dell’integrazione delle due normative che occorre approcciarsi al sistema di protezione e gestione dati, in quanto ciò permetterà di evidenziare tutti gli eventuali limiti e debolezze delle procedure aziendali.
L’imprenditore, prima di procedere alla formale contestazione, avrebbe ben dovuto tener conto che il proprio sistema informatico di monitoraggio, diversamente da quanto comunicato all’Ispettorato del lavoro e da quanto indicato nell’informativa, permetteva la raccolta illegittima di informazioni sull’attività lavorativa dei dipendenti. Non solo, dall’istruttoria è anche emerso che quei dati (che comunque non si sarebbero dovuti raccogliere) erano anche stati utilizzati per finalità ulteriori e non previste dalle medesime informative e autorizzazioni. Tra le finalità di trattamento non rientra né quella preordinata all’adempimento di obblighi stabiliti con il contratto di lavoro, né, tanto meno quella preordinata al perseguimento del “legittimo interesse del titolare”, che costituisce in termini generali una delle condizioni di liceità del trattamento a condizione, peraltro, che il titolare effettui preventivamente un test comparativo rispetto agli interessi o i diritti o le libertà fondamentali dell’interessato.
A ciò deve pure aggiungersi che sono state riscontrate irregolarità anche nei tempi di conservazione. Dalla lettura del provvedimento, infatti, sembrerebbe che vi sia sta confusione tra dato anonimizzato, che ha tempi di conservazione pressoché illimitati, e dato pseudominizzato (come quelli dell’azienda sanzionata) che proprio perché riconducibili a soggetti determinati in associazione ad altre informazioni (di cui il datore di lavoro era in possesso), impongono tempi di conservazione non superiori al conseguimento delle finalità di trattamento perseguite.
Pertanto ancora una volta è imporrante sottolineare come l’adozione di un sistema di gestione GDPR, lungi da mettere freni allo sviluppo dell’attività imprenditoriale, deve essere utilizzato come adeguato strumento di sviluppo e tutela: la questione non è se compiere una scelta o meno, ma – nei limiti del rispetto dei diritti fondamentali – come metterla in atto. L’Autorità quindi, ritenuto illecito il trattamento effettuato, ha ordinato alla società di modificare le informative rese ai lavoratori, indicando nel dettaglio tutte le caratteristiche del sistema, e ha ingiunto il pagamento della sanzione.
Si conclude riportando la rilevante precisazione che il Garante offre a conclusione del proprio provvedimento, laddove l’Autorità osserva, infine, che il proprio accertamento non costituisce una duplicazione rispetto alla decisione del giudice penale, considerato che mentre la sanzione penale – alla luce della natura personale della relativa responsabilità – può essere applicata nei confronti della persona fisica ritenuta colpevole del reato, l’applicabilità della sanzione amministrativa prevista dalla disciplina in materia di protezione dei dati personali è, nel caso concreto, da valutare nei confronti di una persona giuridica.
Rimane aperta la strada, quando il Legislatore riterrà di ritornare sui propri passi (a mio giudizio scelta auspicabilmente), dell’inserimento dei reati di illegittimo trattamento dei dati personali nell’ambito dei reati presupposto di cui alla legge 231/01.