Qualsiasi comportamento, anche lecito, ma finalizzato ad evadere l’IVA e le imposte sui redditi delle persone fisiche può portare al sequestro preventivo sui beni del contribuente.
E’ questa la conclusione della Corte di Cassazione con la sentenza 26723 del 7 luglio 2011, che aggiunge un ulteriore tassello in tema di sequestro preventivo del capitale sociale e dei beni dell’imprenditore in caso di evasione.
La sentenza si riferisce al caso di un imprenditore che, attraverso una serie di condotte ed atti negoziali assolutamente legali, aveva dissimulato una attività di impresa, ottenendo in questo modo un'”evasione Iva con atti leciti”.
Proprio la liceità del comportamento tenuto era stata il perno della difesa, secondo la quale la condotta dell’imprenditore era “elusiva e non penalmente rilevante”. Tutto inutile. La Corte ha confermato il sequestro preventivo di beni per oltre 3 milioni di euro in quanto l’imprenditore, agendo personalmente, ha di fatto dissimulato una attività di impresa.
La sentenza è di una certa importanza perché, oltre a definire una volta di più i confini del sequestro preventivo, riapre la questione del cosiddetto “abuso di diritto nel penale”. Negli ultimi mesi si è infatti consolidato l’orientamento della Cassazione secondo cui il contribuente non può cercare scorciatoie legali per evitare di pagare le imposte, perché, omettendo di dichiarare dei proventi anche con atti leciti, si rende colpevole di frode fiscale.
Ad essere colpiti sono così tutti quei contribuenti – spesso piccoli e medi imprenditori – che hanno perseguito un risparmio fiscale senza alcuna violazione di norme tributarie, i quali non solo subiscono accertamenti fiscali, ma rischiano addirittura il carcere. La sentenza è particolarmente controversa perché, in questo modo, si rischia il paradosso che l’imprenditore sia di fatto obbligato a pagare la maggior quantità possibile di tasse, non potendo scegliere, tra più operazioni, quella fiscalmente più conveniente.