Non importa che non ci siano indizi gravi: tutto è lecito di fronte ad una evasione fiscale. Ivi compreso il sequestro in via preventiva dei beni aziendali e del capitale sociale. La Cassazione si è ancora una volta in maniera fin troppo esplicita rispetto al rischio che corre chi evade l’Iva.
La sentenza 25357 del 24 giugno emessa dalla Corte di Cassazione relativa al sequestro di quote e beni di due aziende gestite da un amministratore rinviato a giudizio per evasione fiscale, truffa e dichiarazione infedele ha aggiunto così un ulteriore tassello di severità nei confronti della ormai nota pratica del sequestro preventivo, ossia la confisca per equivalente dell’intero capitale sociale dell’impresa e, in parallelo, degli immobili e dell’auto del commercialista che ha ideato l’indebita compensazione Iva per conto dell’impresa della quale è consulente fiscale.
“L’ordinanza che dispone il sequestro – ha spiegato la Corte – non deve essere motivata dalla sussistenza degli indizi di colpevolezza, non essendo i detti indizi fra i presupposti applicativi; e ciò in quanto è sufficiente per l’adozione della detta misura cautelare la presenza di un fumus bonis juris e cioè l’ipotizzabilità in astratto della commissione di un reato“: insomma, è sufficiente la semplice ipotesi, l’essere “in odor di evasione” per scatenare la famigerata confisca.
Ma non basta. E’ importante rilevare che il sequestro dei beni è valido anche se l’amministratore rinviato a giudizio non è l’intestatario delle quote o il rappresentante legale della società : è sufficiente che siano accertate, spiegano gli ermellini, “la disponibilità del bene da parte dell’indagato e la sua strumentalità rispetto al reato per il quale si procede”. Neppure l’astratta intestazione del bene a terzi, dunque, può consentire di ripararsi dalla possibilità di sequestro.