Come è noto, la determinazione del reddito da lavoro autonomo deve avvenire sulla base del cosiddetto principio di cassa, diversamente da quanto accade alle imprese che sottostanno al principio di competenza.
Di conseguenza, salvo deroghe, il reddito imponibile è dato dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto la forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nello stesso periodo dell’anno.
Questo principio, alquanto noto, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8626 del 15 aprile u.s., con la quale il Collegio ha enunciato un vero e proprio obbligo di correttezza e buona fede dell'Amministrazione Finanziaria.
La Corte ricorda che l'articolo 54 del TUIR statuisce categoricamente le modalità di tassazione del reddito da lavoro autonomo, disponendo che “il reddito derivante dall'esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l'ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell'esercizio dell'arte o della professione, salvo quanto stabilito nei successivi commi“.
Tale disposizione, secondo i giudici di legittimità , “è chiara e non ammette interpretazioni diverse da quella secondo la quale i compensi vanno sottoposti a tassazione in relazione all'anno in cui sono stati percepiti“.
Per quanto riguarda la ratio del disposto di cui all'articolo 10 dello Statuto del contribuente – secondo cui i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria devono essere improntati al principio della collaborazione e della buona fede – questa deve rinvenirsi nel diritto del cittadino-contribuente ad aver notizia, sin dall'inizio della verifica/accertamento, delle chiare motivazioni circa l'interesse conoscitivo del Fisco a esaminare la sua posizione tributaria.