Gli ultimi dati sulle dichiarazioni dei redditi non sono molto rassicuranti circa la sostenibilità della spesa pubblica e del welfare italiani. Recentemente un’analisi effettuata dalla Corte dei Conti ha rivelato una flessione dei controlli fiscali effettuati nel corso del 2015, evidenziando gli scarsi risultati della condotta dall’Agenzia delle Entrate lo scorso anno (poco più di 621mila con un calo del -4% sul 2014 e del -16% sul 2012).
Nel 2015 le dichiarazioni dei redditi presentate sono state 40,7 milioni, su 60,79 milioni di abitanti, con solo 30,72 milioni di contribuenti che dichiarano di avere reddito, per quanto minimo. Secondo alcune stime:
- il 46% dei contribuenti dichiarerebbe solo il 5,1% del proprio IRPEF, pagando un’imposta media di 305 euro;
- il 15% dichiarerebbe il 9%, per una imposta media di 1.665 euro l’anno;
- l’11,28% dei contribuenti sembra dichiarare oltre il 52% di tutta l’IRPEF;
- i lavoratori dipendenti pagherebbero il 60% dell’intera IRPEF versata;
- gli autonomi verserebbero solo il 5,7% del totale;
- i pensionati il 35% del totale.
Un quadro che però, secondo la CGIA Mestre, risulterebbe fuorviante e non solo:
«È statisticamente scorretto “assegnare” una quota importante dell’infedeltà fiscale ai lavoratori autonomi basandosi sull’analisi dell’IRPEF che, ricordiamo, incide sul gettito fiscale complessivo solo per il 23,3%».
La CGIA sottolinea poi che
«Sull’entità dei redditi di tutte le categorie, ricordiamo che sebbene nella dichiarazione vi sia una casella intitolata al “reddito complessivo”, vi sono molte forme reddituali, riguardanti in particolar modo gli autonomi, che non vengono utilizzate per la sua determinazione:
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a. alcune legate a forme di sostentamento o integrazione dei reddito, si pensi alle indennità di invalidità o agli assegni familiari;
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b. altre soggette a forma di tassazione sostitutiva, si pensi alla cedolare secca sugli affitti o alla tassazione forfetaria per i regimi per i piccoli imprenditori, o legati ad alcuni particolari settori economici (agricoltura, navigazione, etc), o per ragioni di marginalità (voucher);
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c. altre, infine, perché sin dall’inizio della riforma tributaria il legislatore ha deciso di escluderle. Si tratta dei redditi da capitale, che non comprendono solo gli interessi che percepisce il piccolo risparmiatore, ma anche i dividendi da partecipazioni (non qualificate) riconducibili a grandi società di capitali».
Va poi fatta attenzione al fatto che i contribuenti possono essere titolari di più tipologie di reddito, tutte confluenti in quello complessivo. La CGIA fornisce quindi la seguente tabella nella quale, nella categoria degli “autonomi” si sono stati considerati tutti i contribuenti IRPEF che dichiarano redditi di impresa, partecipazione in società di persone e impresa familiare/professionale:
La CGIA ricorda infine che:
«Il 55% delle nuove partite IVA muore entro i primi 5 anni di vita e in ogni annualità c’è una quota di imprese che non lavora tutto l’anno (data dall’incidenza tra nuove iscrizioni più le cessazioni sul totale) pari al 12%. Se, inoltre, consideriamo che esistono circa 500.000 “false” partite IVA e oltre il 70% di artigiani e piccoli commercianti lavora da solo, appare evidente che il livello reddituale di questa categoria non può essere elevatissimo».
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