Una decisione storica della Corte di Cassazione sconvolge i commercialisti, ora più a rischio davanti alla legge: la sentenza 39239 del 28 ottobre ha sancito che il professionista depositario delle scritture contabili di un’azienda rappresenta parte attiva in casi di evasione fiscale.
In altre parole, si presuppone che il commercialista abbia avuto un vantaggio economico attraverso la partecipazione all’attività criminale di evasione fiscale del proprio cliente.
La sentenza trae le sue origini dalla richiesta di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di un commercialista accusato di concorso in corruzione in atti giudiziari in relazione a due ricorsi presentati alla Ctp da due società, di cui era depositario delle cui scritture contabili.
Sulla base dei ricorsi il tribunale ha confermato la misura di sequestro, affermando la presenza di un reato di “corruzione attiva” e in virtù dell’ex articolo 322-ter del codice penale il commercialista, era corresponsabile della realizzazione del profitto, indipendentemente dalle quote di sua eventuale ripartizione.
La Cassazione, nonostante il ricorso del commercialista stesso in cui asseriva la propria inimputabilità, ha confermato le decisioni del tribunale sottolineando un collegamento profitto/bene-valore patrimoniale immediatamente individuabile.
È necessario – conclude la cassazione – che nell’esercizio delle sue funzioni il commercialista osservi sempre la diligenza richiesta dalla normativa e dalla disciplina e deontologia della professione, avendo l’obbligo di verificare, nella specie, la correttezza delle informazioni rese dal cliente ed escludere dalla dichiarazione dei redditi, ad esempio, eventuali oneri sprovvisti di documentazione giustificativa (Cassazione 9916/2010).