Contabilità  occulta: ricavi in nero, la prova spetta al Fisco

di Francesco Mantica

11 Aprile 2012 12:00

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Se la Guardia di Finanza individua dei dati sospetti che suggeriscono l’esistenza di una contabilità  occulta in una impresa – mirata ad evadere le tasse nascondendo ricavi – spetta comunque al Fisco l’onere della prova prima di poter passare all’avviso di accertamento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3170/2012 in cui ha precisato che rinvenire dati extra-contabili non è sufficiente a far scattare l’accusa di evasione: è necessario dimostrare infatti di aver proceduto ad un riscontro con la contabilità  ufficiale.

La sentenza nasce da un controllo effettuato dalla GdF durante il quale, in occasione dell’accesso alla sede di un’azienda, era stata trovata una pen-drive contenente dati contabili estranei alla contabilità  dichiarata.
La presenza di ricavi non dichiarati ha fatto scattare l’avviso di accertamento da parte del Fisco. L’impresa in questione ha però fatto ricorso, e grado d’appello dopo grado si è arrivati alla Cassazione, che ha accolto il ricorso in quanto “la motivazione espressa è risultata insufficiente ed inadeguata”.

Nello specifico, è risultato che il contenuto della pen-drive non fosse imputabile interamente a ricavi non contabilizzati, ma si riferisse a ricavi complessivamente prodotti dalla società  per gli anni oggetto di accertamento. L’Ufficio delle Entrate, in questo caso, prima di procedere avrebbe dovuto provare sufficientemente i distinguo delle due contabilità , e se i ricavi omessi fossero stati realmente tali.

La sentenza è particolarmente importante perché definisce in maniera univoca la questione “contabilità  parallela“: sostanzialmente, il Fisco non può contestare tutto quanto emerge dalla contabilità  non ufficiale, ma è necessario verificare prima che ci sia una effettiva incoerenza con quanto dichiarato ufficialmente dall’azienda.