Il “social business” è una nuova dimensione del pensare l’azienda, il lavoro, il prodotto ed il rapporto con tutto quel che è fuori e dentro l’azienda stessa.
Il “social business” è un approccio olistico al mercato, più consapevole del fatto che l’azienda è parte di un tutto e che non può fare a meno di dipendere da ciò. Ma “social business” è anche stato storicamente un ossimoro, due parole contrapposte che ora, poco alla volta, tentano di avvicinarsi per scoprire quali sinergie possano scaturirne.
Di tutto ciò si parlerà in occasione della quinta edizione del “Social Business Forum“, previsto il 4-5 giugno prossimo presso il Marriott Hotel di Milano. L’organizzazione è affidata ad OpenKnowledge e l’evento si presenta come un’occasione unica per coloro i quali intendono far compiere alla propria azienda un passo avanti sotto ogni punto di vista, maturando una nuova consapevolezza che in prospettiva si tradurrà inevitabilmente in risultati di mercato.
Ed è questo l’obiettivo primario che l’evento si pone: dimostrare il passaggio dalla teoria alla pratica, dal “social” al “business”.
Si parlerà del processo più che del punto di arrivo, dei mezzi più che dei fini, così che i partecipanti possano portarsi a casa un bagaglio di nozioni ed esperienze immediatamente utili, immediatamente applicabili ed immediatamente applicabili. Ne abbiamo parlato con Emanuele Quintarelli, responsabile dell’evento e parte del Comitato Scientifico che presiede l’organizzazione del forum.
Il “social business” richiede anzitutto un sovvertimento culturale nel modo di pensare l’azienda ed i processi produttivi: dove sono i maggiori ostacoli e come è possibile superarli?
«La grande opportunità offerta dai social media non è il comunicare meglio, il raggiungere più persone e neanche il creare una relazione con il cliente. Al contrario, le nuove piattaforme di partecipazione di cui oggi disponiamo sono un incredibile fattore accelerante per un nuovo concetto di azienda in cui tutto ruota intorno alle persone, processi produttivi e prodotti compresi.
I social media consentono di ascoltare ed estrarre massivamente senso dalle conversazioni online, di creare nuovi prodotti tramite il contributo di migliaia o milioni di persone, di raccogliere e mettere a fattore comune la conoscenza e le energie più preziose di cui l’azienda dispone. I social media più come cambiamento che come canale.
Come è facile immaginare, pur vedendo in prospettiva queste opportunità, quasi tutte le imprese si scontrano con grandi barriere in termini di cultura, di strumenti, di modelli di business, di filosofia. Da un focus azienda centrico sull’interno, sul prodotto da vendere, sul controllo del messaggio e delle persone, ad un’impresa aperta, trasparente, fluida, reattiva, dal basso e partecipata.
Si tratta di un cammino verso la centralità dell’individuo spesso faticoso e che in molti casi parte da due componenti: una chiara visione strategica (top-down) del ruolo centrale che le community di persone hanno nel futuro del business ed una capacità di coinvolgimento (bottom-up) dei clienti, ma ancora prima dei dipendenti nell’implementare questa visione tramite esperimenti coraggiosi che consentano di apprendere con piccoli budget, ma risultati tangibili. Cambiare la cultura e far evolvere i processi è possibile ma per essere sostenibile deve trattarsi di un cambiamento fatto con le persone, non sulla loro pelle».
Storicamente “social” e “business” erano concetti lontani, tendenzialmente contrapposti. Cosa è successo nella società e nel mondo del lavoro affinché il percorso di avvicinamento potesse cominciare?
«Social e business sono concetti contrapposti solamente nella visione di azienda più in voga oggi, quella costruita dal management scientifico, da Taylor, da Ford in cui l’obiettivo è produrre e vendere beni tangibili in massa al più basso costo possibile. Questo perché sono andati persi quella collaborazione, quello scambio, quella relazione ed interazione individuale a cui siamo stati abituati nelle centinaia di anni che hanno preceduto l’industrializzazione.
L’economia del 21esimo secolo, basata sempre più su conoscenza, creatività, bilanciamento di lavoro e vita privata, scolarizzazione diffusa, maggiore autonomia degli individui anche grazie all’uso dei social media è in un certo senso un ritorno alle origini, ma su una scala planetaria. Come se tutto il mondo fosse improvvisamente tornato ad essere un villaggio, ma globale in cui chiunque può interagire direttamente con chiunque rompendo la torre di avorio dentro cui molte aziende si sono rinchiuse.
L’ottimizzazione esasperata dei processi di business garantisce un vantaggio solamente finché il mondo che ci circonda è facilmente prevedibile, in cui le necessità possono essere anticipate e le risposte fornite in modo ripetitivo. Al contrario, il contesto economico in cui siamo immersi in questo momento è turbolento, non lineare, in constante rapida mutazione, altamente competitivo. Ciò che fa la differenza non è più soltanto il processo, ma la capacità di gestire e capitalizzare le eccezioni al processo. Ciò richiede un ruolo attivo, una maggiore responsabilità, una più forte autonomia e motivazione da parte di tutti i dipendenti ed ormai anche dei milioni di clienti. Studi decennali come the Shift Index del “Center for the Edge” di Deloitte mostrano come il mercato stia di fatto chiedendo un’azienda nuova, al contempo globale ed umana».
Quali possono essere i vantaggi del social business per una piccola impresa? In quali ambiti “pensare social” riconsegna ad oggi i maggiori risultati?
«L’aspetto più affascinante, ma anche più complesso, è l’orizzontalità del Social Business. L’opportunità che abbiamo di fronte tocca qualsiasi funzione aziendale attraversando i dipendenti, i clienti, ma anche l’intero ecosistema dell’impresa.
Ciò è vero anche per la piccola impresa. Tra i processi più interessati c’è sicuramente la relazione con il cliente: il marketing, la vendita, il supporto. Grandi benefici si possono però avere anche nell’abbattimento dei costi operativi, nell’aumento di reattività verso il mercato, in un coinvolgimento più efficiente di partner per esempio all’interno della stessa filiera.
Coinvolgendo sapientemente clienti, dipendenti e fornitori, la piccola impresa trova delle risorse a cui semplicemente finora non aveva accesso, perché riservate alla grandissima azienda. Tramite la possibilità di comunicare senza alcun costo ed in tempo reale con milioni di persone, l’unico limite diventa il valore, l’attrattività ed il contributo che l’azienda è in grado di portare ai proprio interlocutori. Paradossalmente anche l’agilità, data dalle dimensioni ridotte, facilita un ripensamento ed un’evoluzione dei modelli esistenti che può avvenire in settimane o mesi, contro gli anni di lavoro richiesti nelle multinazionali».
Che ruolo hanno la rete ed i nuovi strumenti dell’IT nel percorso di crescita ed adozione del social business?
«Molti manager credono che il Social Business sia portare Facebook dentro l’azienda. Ciò non è corretto, perché le dinamiche e gli strumenti tipici di un’impresa sono spesso antitetici rispetto ai valori della rete. Ciononostante il fervore, la circolazione di idee e contributo, la ricchezza di nuove tecnologie e dispositivi, la sensazione che ci sia spazio per tutti in questo processo di rinnovamento globale, sono alla base tanto del Web 2.0 che del Social Business.
Mettere a disposizione strumenti facili, più lineari, perché no più divertenti da utilizzare (vedi tutto il fenomeno gamification) consente di abbattere le barriere di partecipazione, riduce i costi di formazione e soprattutto invoglia gli individui a dare il proprio contributo. L’IT è stato in molti frangenti il guardiano dell’ortodossia a difesa di architetture e policy decise formalmente dall’azienda ed imposte alle linee di business. Oggi il business è influenzato dalla rete. L’azienda è influenza dalla rete ed in particolare dai suoi clienti. Per rispondere anche l’IT sta cambiando il proprio ruolo da mero abilitatore tecnologico a partner proattivo del top management. L’unico modo per far evolvere il tessuto dell’impresa è essere inclusivi e far sedere al tavolo ogni dipartimento, IT compreso, fin dall’inizio».
Tra i casi di successo che presenterete, ce n’è uno in particolare da citare a dimostrazione dell’importanza del social business?
«Il Social Business Forum si è sempre contraddistinto per la voglia di sposare visioni di alto livello con casi reali, pragmatici raccontati dalle aziende più attive in questo ambito. Ogni anno ci impegniamo a scovare le esperienze più significative, in ogni settore e paese, per convincerle a condividere con noi quanto appreso. L’edizione che partirà tra due settimane di casi di successo ne ospiterà circa 20 da tutto il mondo.
L’aspetto più interessante è forse proprio l’ampiezza di problemi affrontati e di risposte individuate. Si tratta di storie molto diverse, dal marketing, al customer care, al coinvolgimento dei dipendenti, all’innovazione collaborativa, al social media marketing.
Tra i presenti, leader internazionali come Citigroup, Luxottica, Pirelli, Sanofi, Deutsche Bank, Johnson & Johnson, Legrand, Alcatel Lucent, Scania, BNP Paribas, grandi realtà italiane come Ferrovie dello Stato, Amadori, Corepla, Seat Pagine Gialle ed infine aziende piccolissime, ma portatrici di un enorme messaggio di rinnovamento come Caffè Carbonelli. Tutti i partecipanti all’evento troveranno stimoli freschi e soprattutto applicabili immediatamente al proprio lavoro».
Cosa potrebbe dare il social business all’Italia? Il nostro paese quanto è distante da una vera evoluzione del modo di fare e di pensare l’impresa?
«Il Social Business porta un messaggio. Un messaggio di ascolto, di inclusione, di flessibilità ed in ultima istanza di collaborazione. In questo momento storico il nostro paese sembra quantomai lontano da questi principi eppure come vediamo ogni anno al Social Business Forum, esistono tanti esempi che lasciano intravvedere un futuro più promettente e roseo.
Il Social Business cerca di portare alla luce alcuni di questi strumenti manageriali per aiutare le nostre aziende a fare meglio e soprattutto a farlo assegnando un ruolo più paritetico e rilevante agli individui che le costituiscono. Umanizzare l’impresa non è questione di bontà. E’ al contrario l’ultima leva competitiva che ci rimane in un mercato senza barriere d’ingresso ed in cui dobbiamo confrontarci non solamente con realtà provenienti da qualunque parte del mondo, ma anche con i nostri clienti per la prima volta in grado di confrontarsi alla pari con qualunque impresa.
Il nostro obiettivo è mettere in condizione un pubblico sempre più ampio di comprendere queste sfide e sviluppare gli elementi per dare una risposta. Il Social Business è innanzitutto innovazione».
Per partecipare al Social Business Forum 2012 è necessario registrarsi tramite il sito ufficiale dell’evento.