Quando si parla di Project Management, spesso se ne trascurano gli aspetti “meno tecnici”. Eppure, è proprio da questi che prendono forma i fattori chiave di una qualità indispensabile al buon Project Manager: la Leadership.
Termine abusato in molte occasioni e spesso frainteso, in questo ambito può essere definita come «stile o comportamento messo in atto per integrare sia i requisiti della propria organizzazione che gli interessi personali, ai fini del raggiungimento di determinati obiettivi» (Harold Kerzner).
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Gli elementi che vi contribuiscono? Il leader, le persone, la situazione. Di fatto, è soprattutto nella Gestione delle Risorse Umane che essere leader fa la differenza.
Come guidare efficacemente il team senza mantenere nel giusto rilievo gli obiettivi di progetto, senza creare senso di responsabilità e confidenza, senza valorizzare e incentivare le abilità individuali?
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Un leader sa gestire adeguatamente le relazioni con le persone esterne al team per rimuovere ogni ostacolo comunicativo, sa creare opportunità per ciascuno e dare il giusto esempio affrontando le sfide più aspre.
Per diventare un Project Manager leader serve dunque un salto di qualità, per il quale può venirci in aiuto un interessante manuale in 14 capitoli: Project Leadership, di James P. Lewis (edizioni Mc Graw-Hill). In questo primo articoli analizziamo i capitoli 1-5.
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1. Cosa è la leadership? Ci serve davvero?
«La leadership si palesa come l’arte di far sì che gli altri desiderino fare ciò che voi siete convinti debba essere fatto»: con questa definizione, il capitolo introduce le differenze tra Management e Leadership, che non coincide necessariamente con una posizione di comando. Non sempre è necessaria (attività di routine o orientate alle operazioni quotidiane) tranne che in un progetto, dove il team deve fronteggiare imprevisti, difficoltà, cambiamenti, stress.
2. Leadership in azione
Essendo un processo messo in atto per influenzare le persone con cui abbiamo un contatto, genera la motivazione che spinge all’azione. Per evitare disparità di comportamenti, è indispensabile avere e trasmettere agli altri una chiara visione e quale missione il team dovrà portare a termine.
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3. Personalità e leadership
Lo stile di leadership dipende strettamente dalla personalità del leader: ne deriva che vi saranno, teoricamente, infiniti stili per infinite tipologie di personalità. Per mettere ordine in questo dedalo, possiamo farci aiutare dalla psicologia.
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Lewis ricorre allo strumento di “classificazione della personalità” MBTI (Myers-Briggs Type Indicator), ideato da Myers e Briggs e basato sugli studi di Jung. Dalla combinazione degli orientamenti della personalità (I= introversione, E= estroversione, N= intuizione, F= sentimento, T= pensiero, J= giudizio, S= sensazione, P= percezione) ne deriva una tipologia, la cui consapevolezza diventa strumento di efficace interazione con gli altri.
4. Temperamento e motivazione
Il nostro comportamento è legato al perseguimenti di soddisfazioni, bisogni e interessi in risposta alla propria personalità. Ad esempio, gli “idealisti”(nella tipologia MBTI, NF: intuitivi-sentimentali), tendono ad avere interessi di tipo umanitario, preoccupazioni morali e vocazione per attività a stretto contatto con le persone. Su queste basi, un PM può affidare a ciascun membro del team ruoli e attività in sintonia col suo temperamento specifico, ottenendo da ognuno il meglio.
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5. Stili di pensiero
Altra caratteristica personale da prendere in considerazione è lo stile di pensiero, con il corollario che ne deriva: non tutti la pensano allo stesso modo! Sappiamo quanto questo renda ogni cosa più difficile: tendiamo a comunicare meglio con chi è simile a noi, ma abbiamo difficoltà se in qualche modo l’altro è “diverso” (età, genere, etnìa, estrazione sociale, ecc…).
Ancora una volta, ci muoveremo meglio se cercheremo (pur con tutti i limiti che inevitabilmente comporta) di operare una classificazione. Lewis propone quella ideata da N. Herrmann, ex-dirigente della General Electric e ora a capo di una istituzione internazionale per la formazione manageriale.
Egli ha individuato 4 stili fondamentali, associati per immediatezza mnemonica a 4 colori-base: BLU= analitico, logico, finanziario; VERDE= pianificatore, dettagliato, organizzato; ROSSO= emotivo, interpersonale, spirituale; GIALLO= olistico, concettuale, artistico.
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L’elaborazione delle risposte date a una batteria di 120 apposite domande attribuirà un punteggio di “appartenenza” del soggetto a ciascuno dei 4 stili, definendo qual’è la dominante di pensiero dello stesso.
In accordo con Herrmann, potremmo dunque facilmente prevedere, ad esempio, una qualche difficoltà comunicativa tra chi è quasi totalmente BLU (orientamento analitico) e chi è quasi totalmente ROSSO (orientamento interpersonale).
Inoltre, avremo un team di progetto ben equilibrato e in grado di rispondere al meglio a tutte le esigenze che via via si presentano, se i suoi membri sono ben assortiti anche per ciò che concerne gli stili di pensiero: ciò rende il team nel suo insieme flessibile.
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Questa deve essere la caratteristica di base anche del suo leader: secondo una teoria originale dell’autore (Law of Requisite Variety), l’elemento che controlla un sistema, non importa se composto da macchine o da umani, è quello con la più grande flessibilità di comportamento.
Non si può fare a meno, infine, di fare un accenno ad un altra dote basilare: quella del Decision Making: ciò che rende una decisione davvero efficace dipende, in sintesi, da due soli aspetti: la sua validità in termini qualitativi (ad esempio, tecnologici) e quantitativi (ad esempio, per il suo costo), e il suo grado di accettazione da parte di tutti coloro che da questa decisione sono impattati (si pensi, ad esempio, al suo effetto sul morale del team di progetto).