Si trascorre una buona parte della vita lavorando. Diversi studi e ricerche o pubblicazioni – come “Lavoro doc. Qualità del lavoro, qualità della vita” di V. Maione, inserito nel progetto “Lavoro DOC” – evidenziano come non sia solo l’aspetto retributivo, per quanto importante, il parametro che rende qualsiasi lavoro piacevole a priori. Compito del management aziendale dovrebbe essere anche quello di migliorare gli aspetti sociali del lavoro, sempre finalizzato all’incremento della produttività e al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Saper dirimere controversie e mediare tra situazioni e necessità diverse, caratteri differenti e differenti sensibilità – spesso causa di attriti che nulla hanno a che vedere con i progetti o il core business – è una delle caratteristiche più apprezzabili, considerate parte integrante della “capacità di gestione” di un’attività imprenditoriale. E più ancora la capacità di creare un ambiente di lavoro piacevole, quale che sia l’accezione che si vuole dare al termine.
Gestire e motivare le risorse umane
In un interessante convegno dal titolo “Risorse umane e non umane”, tenutosi qualche tempo fa a Milano e promosso da ESTE Edizioni – che si occupa di aspetti imprenditoriali e di Project Management – il focus è stato, per l’appunto, la capacità di gestire e motivare le risorse umane e l’importanza strategica per un’azienda di far emergere quelle competenze che spesso rimangono trascurate rimanendo un patrimonio non utilizzato ancorché sconosciuto. Tra gli interventi espressi da responsabili di HR provenienti da differenti realtà, è emerso come l’orientamento aziendale verso aspetti di “buon governo” non è non differibile, perché rappresenta quel plus che può fare la differenza rispetto ai competitor.
Secondo questa chiave di lettura, il ruolo del management diventa fondamentale in seno al tessuto culturale dell’azienda: quanto un’azienda sia attenta ai bisogni delle proprie risorse fa la differenza in termini di risultati.
Il dilemma emerso nel corso degli interventi è dicotomico: necessità di intervenire in tempi medio lunghi per riconoscere le capacità effettive delle risorse, oppure necessità aziendale di raggiungere standard di produttività coerente con i parametri di redditività propri? In questo senso i contratti a tempo determinato risultano negativi, perchè non consentono di acquisire sufficiente conoscenza delle risorse in organico. Disporre di più tempo per farsi conoscere grazie ad un contratto a tempo indeterminato può portare a una brillante carriera in seno alla società, con soddisfazione da parte di entrambe le parti.
Per i responsabili di HR, il problema di conoscere, verificare e far crescere queste peculiarità insite in ciascuna risorsa si scontra con l’innegabile necessità di disporre di molto tempo per approfondire tali aspetti, onde poter definire il migliore utilizzo della risorsa per l’azienda stessa, massimizzando i risultati.
Questo si scontra con la realtà quotidiana per cui le competenze sono rigorosamente espresse dai curricula delle persone che interagiscono con l’azienda e che individuano rigidamente il reparto in cui la specifica risorsa verrà inserita. A questo si aggiunge la difficoltà ad accettare che il personale possa essere utilizzato in altri ruoli effettuando una sorta di rotazione che consentirebbe l’emergere di capacità differenti da quelle reimpostate, ad esempio, dalla carriera scolastica.
Far emergere i talenti
L’aspetto interessante è stato perfettamente espresso nel corso dell’incontro prima citato da Andrea Orlandini (Sisal) che, con un gioco di parole mutuato dall’enigmistica, ha parlato di talenti latenti ovvero di tutta una serie di capacità che ciascuno ha come proprio bagaglio ma che non esprime, soprattutto per timore del giudizio dei colleghi o del management. L’obiettivo da raggiungere è individuare un criterio o un metodo che consentano l’emergere di questi talenti inespressi.
Un primo approccio è stato proposto da Renzo Silvestri (GKI) che ha proposto di superare l’intrinseca complessità dell’incentivazione aziendale con momenti formativi fortemente personalizzati in modo da contestualizzare i contenuti sulle effettive capacità delle persone.
Un approccio ancor più interessante è invece quello che, nel corso del convegno, era stato presentato da Marta Brioschi (Fandis): presso la sua società sono state attivate una serie di attività slegate dal contesto produttivo in cui i partecipanti hanno avuto modo di esprimere le proprie potenzialità senza vincoli derivati dall’ambito di realizzazione. Un laboratorio teatrale, ad esempio, ha consentito anche la possibilità di instaurare un diverso canale di comunicazione informale, che ha reso disponibili differenti momenti di confronto destrutturato. Questo ha permesso la esplicitazione di specifiche competenze ed interessi in ambiti informali e quindi non soggetti a giudizio.
Il laboratorio teatrale ha reso possibile l’emergere di capacità nascoste e, come conseguenza diretta, ha aperto un canale di ascolto estremamente importante per prevenire l’insorgere di conflitti e frustrazioni, avendo a disposizione un momento esterno all’ambito lavorativo in cui far confluire e sfogare le possibili tensioni interne.
Quanto realizzato è stato perfettamente descritto nella logica di cultura aziendale da parte di Pareschi (IBM) descrivendolo con uno slogan dall’appeal decisamente interessante: «migrare dal modello di business al modello di lavoro, indicando per l’appunto un diverso modo di approcciare l’interrelazione tra le risorse sul posto di lavoro e ponendole al centro dell’azienda riconoscendone il valore intrinseco e non solo come parametro o indice di produttività».
Si tratta di cultura aziendale che sta modificando il modo di costruire casi di successo. Un esempio è quello offerto da BigG (Google) il cui CEO Eric Schmidt ha affermato che «
l’obiettivo di Google non è monetizzare ogni cosa ma cambiare il mondo».
Questa affermazione la dice lunga su come in azienda si stiano modificando i parametri di valutazione della produttività ed i criteri di valorizzazione delle risorse dando per scontato che il ritorno degli investimenti è strettamente correlato all’eticità del modello di business che non tenga conto dell’aspetto economico che, sicuramente, non viene comunque trascurato.
SW di gestione HR
Un ultimo appunto: nonostante la presenza sulla scena di aziende IT come IBM, INAZ o Data Management, che operano per la realizzazione e promozione di strumenti di gestione HR, il panorama è ancora sterile e scarno: non si va al di là di rilevazione presenze, strumenti di raccolta informazioni per velocizzare la ricerca della risorsa che maggiormente risponde alle specifiche esigenze e poco altro.
Dal canto suo, Microsoft ha da tempo avviato la sperimentazione un’estensione di SharePoint denominato TownSquare per realizzare una sorta di social network aziendale.
Pur essendo un informatico, non mi sento particolarmente attratto da questo scenario evolutivo, e continuo a pensare che l’aspetto sociale dei rapporti umani non possa essere demandato a strumenti di virtualizzazione e che termini come “ascolto”, “condivisione” e “partecipazione” presuppongano un interazione diretta tra gli attori, senza mediazioni tecnologiche.
Il capovolgimento è evidente: mentre il paradigma ad oggi considerato valido è che se l’azienda va bene può retribuire meglio e migliorare la qualità della vita delle proprie risorse, la nuova interpretazione sovverte la precedente, affermando che se le risorse hanno percezione del proprio benessere come elevato, questo non può non riflettersi sulla produttività e sulla qualità aziendale con conseguenti benefici economici per l’azienda stessa.
Che si stia tornando alla centralità dell’uomo propria dell’Umanesimo e dell’Illuminismo? A ben pensarci, non sarebbe affatto male..