Il 60% delle PMI italiane è interessato dal fenomeno dello i smart working, entrando progressivamente in un mercato che vanta numeri significativi: 305mila smart worker, che significa l’8% dei lavoratori dipendenti. Nelle piccole e medie imprese i progetti attivati riguardano però solo il 7%, contro il 36% delle grandi imprese. I dati sono forniti dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.
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Il lavoro agile, recentemente regolamentato da legge specifica, è una modalità di lavoro anche dipendente, che consente di scegliere flessibilmente luogo, orario e strumenti utilizzati.
La segmentazione del mercato vede la grande impresa che in oltre il 50% dei casi ha almeno in programma iniziative di smart working e nel 36% ha già progetti strutturati, che riguardano quindi almeno due delle leve fondamentali che caratterizzano questa forma di lavoro fra flessibilità di luogo, di orario, ripensamento spazi, cultura orientata ai risultati e dotazione tecnologica adeguata per lavorare da remoto. Tutte conoscono il fenomeno, il 7% lo applica in modo informale, il 9% lo introdurrà nei prossimi 12 mesi, solo il 13% non lo ritiene interessante.
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Le PMI, invece, sono più indietro: solo il 7% delle aziende di piccole o medie dimensioni ha già messo in pratica iniziative strutturate di lavoro agile, a cui si aggiunge però un 15% che lavora informalmente in questo modo. Il 3% prevede di lanciare iniziative nel prossimo anno, e il 12% è possibilista in questo senso. Le imprese interessate sono motivate da miglioramento della produttività e della qualità del lavoro (67%), benessere organizzativo (27%) e conciliazione tra vita privata e professionale (16%).
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C’è però una percentuale relativamente alta, pari al 40% delle PMI, che non è interessata a introdurre lo smart working in azienda: si tratta di imprese del manifatturiero (33%), costruzione, riparazione e installazione (17%), commercio (15%), hospitality and travel (15%). Le motivazioni dello scetticismo sono la limitata applicabilità nella propria realtà (53%), disinteresse del management (11%), limitato grado di digitalizzazione dei processi (7%).
La Pubblica Amministrazione rappresenta il 17% dello smart working italiano, quota destinata a crescere in considerazione della Riforma della PA che ha l’obiettivo di coinvolgere almeno il 10% dei dipendenti in progetti di smart working nei prossimi tre anni. Oggi solo il 5% delle PA applica forme di lavoro flessibile, e un altro 4% le applica informalmente. Il 48% intende introdurre forme di lavoro agile nel prossimo anno. C’è però anche un 32% di pubbliche amministrazioni che ammette assenza di interesse. Le motivazioni: difficoltà di applicazione alla propria realtà (66%), percezione di carenze normative o regolatorie (27%), limitato livello di digitalizzazione dei processi (18%).
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Per quanto riguarda il profilo e le caratteristiche degli smart worker, trascorrono mediamente solo il 67% del tempo lavorativo in azienda, contro l’86% degli altri, sono sempre meno legati a una singola postazione (si lavora da altre postazioni all’interno della sede, in altre sedi della propria azienda, presso clienti o fornitori, a casa o in spazi di coworking). I lavoratori flessibili sono tendenzialmente soddisfatti del proprio lavoro, solo l’1% si lamenta, contro il 17% dei lavoratori tradizionali, il 50% è pienamente soddisfatto delle modalità di organizzare il proprio lavoro (22% per gli altri), il 34% ha un buon rapporto con i colleghi e con il capo (16% per gli altri). Infine, ritengono di avere una più adeguata padronanza di competenze relazionali e comportamentali legate al digitale (Digital Soft Skills), che consentono di migliorare produttività e qualità delle attività lavorative. In particolare, gli Smart Worker dimostrano una superiore capacità di collaborare efficacemente in team virtuali esercitando una leadership: solo l’1% ritiene di non avere sviluppato in maniera soddisfacente questo tipo di skill, a fronte del 27% degli altri lavoratori.
Le tecnologie digitali fondamentali per il lavoro agile sono le soluzioni per sicurezza e ’accessibilità dei dati da remoto (95%), device mobili e mobile business app (82%), servizi di social collaboration integrati a supporto della collaborazione e della condivisione della conoscenza (61%), mentre meno diffuse sono le workspace technology che permettono un utilizzo più flessibile degli ambienti aziendali (36%). Resta inadeguata «la capacità di utilizzo delle tecnologie tra i lavoratori – sottolinea Fiorella Crespi, direttore Osservatorio Smart Working -, per questa ragione oltre che sull’introduzione degli strumenti digitali è fondamentale agire sullo sviluppo di Digital Skills, comprese quelle di natura soft e non legate ai singoli strumenti».
L’Osservatorio stima l’incremento di produttività per un lavoratore in smart working nell’ordine del 15%. Proiettando l’impatto a livello complessivo di sistema Paese, considerando almeno 5 milioni di lavoratori che potrebbero fare smart working, l’incremento della produttività media del lavoro in Italia si può stimare intorno ai 13,7 miliardi di euro.
Secondo Mariano Corso, responsabile scientifico Osservatorio Smart Working, lo smart working rappresenta
«una grande opportunità di contribuire a ripensare il lavoro del futuro per rendere imprese e pubbliche amministrazioni più produttive e intelligenti, lavoratori più motivati e capaci di sviluppare talento e passioni, una società più giusta, sostenibile e inclusiva».
Fiorella Crespi ritiene che ci sia ancora «molto da fare per rendere lo Smart working un’occasione di cambiamento profondo della cultura organizzativa», pensando a:
«modalità di lavoro innovative anche per la maggioranza dei lavoratori esclusi, soprattutto nelle PMI e nelle pubbliche amministrazioni, dove, nonostante gli apprezzabili sforzi a livello normativo, la diffusione dello Smart Working è tutt’altro che incoraggiante».