Chi lo ha detto che i videogames sono una cosa per ragazzini, e che questa pratica è incompatibile con qualunque attività “seria”? Le cose sembrano essere cambiate, come dimostra uno studio della US Entertainment Software Association (ESA): il giocatore tipo ora ha 33 anni, e almeno 10 anni di esperienza videoludica alle spalle.
Un patrimonio che le aziende non possono più fingere di ignorare, come dimostrano i numerosi tentativi di sfruttare in ufficio le esperienze vissute all’interno degli ambienti virtuali.
Prima era arrivata IBM, con una serie di studi sul campo e il lancio di un “mondo virtuale” in grado di riprodurre la vita d’ufficio. Poi sono seguiti altri tentativi e altri studi, come il progetto “Seriosity” di Byron Reeves che cerca di applicare routine tipiche dei videogames sul posto di lavoro.
Un metodo che prevede l’introduzione di mappe per obiettivi simili ai “livelli” dei videogioco, come anche di un sistema di retribuzione virtuale per ripagare gli utenti virtuosi e le informazioni utili scambiate via mail, da spendere poi in extra e benefici per il proprio posto di lavoro. Un sistema meritocratico per stimolare la collaborazione e il lavoro di gruppo, ma anche una competizione serena fra i vari collaboratori.