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Covid-19: come finanziare le strategie di uscita dalla crisi

di Anna Fabi

Pubblicato 7 Aprile 2020
Aggiornato 12 Gennaio 2022 11:07

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Paolo Marizza e Guido Rossi ci spiegano come l'attrazione del risparmio in canali d’investimento virtuosi, e con garanzie rafforzate, possa contribuire a far ripartire l'economia del Paese.

Il dibattito sul finanziamento della ripresa dalla crisi Covid 19 spazia dagli Eurobond o Coronabond all’utilizzo di fondi europei per il finanziamento della cassa integrazione, dall’utilizzo del MES alleggerito dei vincoli di bilancio all’allargamento dell’ambito di intervento della BEI, fino a una soluzione di emissioni congiunte di bond di gruppi di Stati solidali (Francia, Italia, Spagna, Portogallo).

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Tutte le soluzioni sopra riportate rientrano nel finanziamento dell’emergenza, ed avranno come obiettivo comune la copertura dei sostegni all’occupazione e al reddito e il potenziamento del sistema sanitario nazionale.

Anche Il decreto anti-Coronavirus del 6 aprile va in tale direzione, fornendo liquidità alle imprese per 400 miliardi di euro, 200 per il mercato interno, altri 200 per potenziare il mercato dell’export. La liquidità verrà erogata dal sistema bancario a fronte di garanzie del Fondo Centrale e Sace.

Le conseguenze della crisi Covid 19 non si fermeranno tuttavia con il finanziamento della crisi emergenziale.

E’ logico aspettarsi un’esposizione permanente allo sviluppo di pandemie della popolazione mondiale nel prossimo futuro ed occorre agire ora, in quanto le società – e in particolare le democrazie – non reggerebbero ad un ulteriore shock.

Gli Stati saranno comunque chiamati a ripensare il modello istituzionale e sociale della convivenza civile, le articolazioni amministrativo-organizzative, e il sistema infrastrutture e della mobilità, in quanto le conseguenze della pandemia si protrarranno nel tempo.

Finanziare importi aggiuntivi di spesa pubblica, non coperti da strumenti “comuni”

Parliamo di 150-200 miliardi di euro nei prossimi 18 mesi. La strategia da sviluppare è equivalente alla ricostruzione post bellica e le soluzioni per finanziare la crisi vanno ricercate nella storia.

Gli Stati hanno sempre fatto ricorso a forme di indebitamento straordinario per finanziare lo sforzo bellico e la ricostruzione, i War bonds. Tali strumenti hanno la caratteristica di unire un rendimento inferiore ai tassi di mercato ad una durata lunga (7-15 anni) e fanno appello alla solidarietà e al senso di appartenenza alla comunità nazionale dei cittadini.

Ma con i rendimenti attuali di mercato come si può consentire all’Italia di emettere delle emissioni “monstre” che consentano la mobilitazione di parte dell’ingente stock di risparmio nazionale depositato in liquidità, in concorrenza con la crescita degli altri debiti sovrani?

Una soluzione potrebbe consistere nell’emissione in aste mensili di Bond Italia a 15 o 20 anni, allo scopo di ridurre l’impatto finanziario annuale, con una cedola costante tra 1,5-2%, l’attuale rendimento lordo del BTP a 20 anni, esente da ogni imposta presente o futura, e che riconosca agli investitori retail o corporate che mantengano in portafoglio il bond, un credito di imposta annuale di importo equivalente o superiore alla cedola (3 – 4%).

Il rendimento netto per il sottoscrittore italiano, aumenterebbe in modo significativo costituendo un’opportunità di investimento competitiva, legata allo sviluppo economico sociale del Paese, che è ragionevole aspettarsi possa ricevere un’adesione significativa.

Le risorse raccolte dovrebbero essere orientate esclusivamente verso investimenti pubblici pro-ciclici o in strumenti di sostegno alle imprese, per innestare il processo di sviluppo del PIL e assorbire l’impatto delle agevolazioni fiscali incorporate nel debito stesso.

Un nuovo patto sociale per mettere le persone al primo posto

L’ approccio della “liquidità con l’elicottero” o di un “quantitative easing per persone e imprese” è quello che serve nell’immediato. Trovare risorse per assicurare la tenuta del tessuto sociale ed evitare rotture senza punto di ritorno nelle nostre filiere produttive non sembra un compito difficile, a patto di allocarle con equità, efficienza e tempestività nell’erogazione.

Nelle contingenze e nell’affanno della gestione di una crisi originata da un nemico invisibile e ancora imprevedibile in quanto a durata e resistenza, manca ancora un quadro generale che orienti l’allocazione di risorse in modo che crei valore per la società, ricollegando però anche la creazione di progresso sociale ad obiettivi di efficienza economica nell’uscita dalla crisi.

Questo è il tempo dell’innovazione sociale ed economica in cui sviluppare nuovi approcci per realizzare progetti visionari in tutti i settori. A differenza di altri Paesi abbiamo anteposto subito la sicurezza delle persone alle esigenze dell’economia e non possiamo ricominciare con un’exit strategy basata solo sulla crescita del PIL.

Nell’economia reale di fronte a shock cosi imponenti sia dal lato della domanda che dell’offerta soltanto una resilienza fatta da reti economiche e sociali più elastiche e flessibili possono proteggere la complessità delle interdipendenze tra persone, imprese, istituzioni, reti di comunicazione, supply chain, ecc.. A differenza del settore bancario, l’economia reale non ha prestatori di ultima istanza in grado di supplire alla carenza di letti di terapia intensiva o di mascherine in modo istantaneo.

Bisogna ripensare il modello di sviluppo con la costituzione di un fondo di trasformazione economica finalizzato a mitigare la chiusura delle imprese e a rilanciare le attività produttive, però ancorato a un nuovo modello di coesione e resilienza sociale fondato su un welfare universalistico e inclusivo.

Una nuova finanza per l’exit strategy

Se la crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che le regolamentazioni e le infrastrutture dei mercati finanziari fanno la differenza, nel bene e nel male. Senza trasparenza negli scambi, negli standard di mercato e nelle valutazioni, gli investitori non possono distinguere tra buoni e cattivi investimenti ed i legislatori/regolatori non possono provvedere ad una adeguata protezione degli investitori, dei risparmiatori.

Quando si tratta di valutare politiche sociali ed economiche cosi imponenti e basate sulla pubblicizzazione del debito, le difficoltà si moltiplicano. Risultano carenti strutture, operatori e competenze per valutare i profili di rischio/rendimento economico-sociale delle iniziative. Conseguentemente buone iniziative ed organizzazioni non vengono finanziate mentre gli investitori rimangono focalizzati esclusivamente sui rendimenti finanziari.

E’ possibile che si sviluppi una nuova finanza che aiuti a ridisegnare architetture economiche e sociali per creare crescita e lavoro? Forse sì. Occorre tuttavia predisporre un set di strumenti e di allineamento di incentivi che ne favoriscano il decollo.

E’ in questa prospettiva che si colloca la nostra proposta “tecnica”: 150-200 miliardi di  High Impact Bond (HIB) nell’ambito di un piano nazionale di uscita dalla crisi, in cui:

  • i privati, persone fisiche, imprese e enti no profit, finanziano il programma investendo nei titoli ad impatto industriale e sociale;
  • lo Stato s’impegna a restituire il capitale e ad assicurare il servizio del debito riconoscendo le detrazioni fiscali;
  • il capitale raccolto viene investito in programmi con specifici obiettivi misurabili e trasparenti e viene remunerato anche con tassi incrementali vantaggiosi rispetto alle condizioni di emissione,  solo se il programma ha successo.

In sostanza gli HIB possono rappresentare uno strumento finanziario innovativo che trasforma i  war bond di storica memoria in uno strumento attraverso cui investitori privati forniscono il capitale iniziale per la gestione di progettualità trasformative dietro garanzia pubblica di elargire, come remunerazione sul capitale investito, parte dei benefici generati dal successo dei progetti stessi per le casse pubbliche e per la società nel suo complesso.

La sovra-remunerazione sul capitale investito avverrebbe solo se i programmi raggiungessero gli obiettivi concordati a monte nell’ ambito di un patto sociale per la rinascita.

E’ fondamentale che le risorse raccolte con gli HIB vengano effettivamente impiegate in un arco temporale molto ristretto – idealmente entro i 6-12 mesi successivi – con termine previsto dal regolamento delle emissioni – per avere l’effetto di aumentare la velocità di uscita dalla crisi. Occorre pertanto modificare i processi autorizzativi, rimuovere le inutili pastoie burocratiche attualmente presenti, procedere con assegnazione diretta dalle stazioni appaltanti, sull’esempio del ponte di Genova, con responsabilizzazione delle stesse, sia sugli importi spesi che sul ben più grave mancato utilizzo delle risorse,  e con la previsione di controllo puntuale successivo.

La logica di gestione dei processi di spesa deve essere quella di un’economia di guerra con la responsabilizzazione degli attori e la previsione di una severità estrema per le eventuali malversazioni.

L’allineamento degli interessi sull’obiettivo comune di impatto può ottenersi, oltre che con la previsione di una sovra-remunerazione “indicizzata” al rispetto di tempi/costi/risultati, con la previsione del rimborso anticipato ai sottoscrittori del bond di ogni importo non speso entro i termini previsti dal regolamento.

Una delle condizioni alla base dello sviluppo dei HIB è che venga a maturare una nuova cultura ed un nuovo atteggiamento verso ciò che è definibile come “bene comune” e che i rischi di impoverimento e di degrado del tessuto economico sociale vengano affrontati con nuovi approcci ed attori in un gioco di squadra.

L’introduzione di HIB comporta ad esempio il parziale trasferimento del rischio di fallimento di un progetto di trasformazione economico-sociale dal settore pubblico a quello privato.  Ma se il progetto, più progetti, un programma qualificato di intervento hanno successo ne guadagnano tutti, trasformando il contribuente/rispamiatore da soggetto passivo a soggetto attivo, nella governance e nel monitoraggio delle iniziative.

I benefici generati dai programmi di successo possono essere reinvestiti nell’espansione di altri programmi, così liberando ulteriori risorse a beneficio della collettività e del servizio del debito.

Inutile nascondersi che le sfide da affrontare non mancano: tra le più importanti, le difficoltà nella misurazione dell’impatto dei progetti finanziati – tutti abbiamo ancora presente l’inadeguatezza dell’analisi costi-benefici per la TAV – e il rischio di deresponsabilizzazione del settore pubblico.

E’ solo sperimentando che si potrà apprezzarne l’effettiva potenzialità.

L’ auspicio è che questi laboratori di “buona finanza” trovino radicamento e sponsorship anche da parte degli enti pubblici territoriali, a partire dalle Regioni, onde adattare tali strumenti alle rispettive specificità sociali ed istituzionali, nell’ ambito di progetti di qualità ad elevata produttività economica e sociale.


Articolo di Guido Rossi, Senior Banker e CEO Olimpia Credit Management, e Paolo Marizza, DEAMS Università di Trieste